Una nuova era per la diagnosi precoce dell’Alzheimer sta prendendo forma al San Raffaele di Milano, dove un team multidisciplinare sta allenando algoritmi in grado di analizzare enormi quantità di dati – dalle risonanze magnetiche ai biomarcatori ematici – per individuare i segnali precoci della malattia. A coordinarlo c’è Federica Agosta, neurologa e capo dell’Unità di Neuroimaging delle malattie neurodegenerative dell’IRCCS, e professoressa associata di Neurologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele. La prof.ssa Agosta, una carriera costellata di successi, tra cui un prestigioso finanziamento dell’European Research Council, spiega l’importanza di rendere queste tecnologie accessibili, efficaci e utilizzabili su larga scala per migliorare realmente la diagnosi e il trattamento delle malattie neurodegenerative. E ritiene che il vero impatto dell’innovazione tecnologica si realizzi solo quando queste soluzioni diventano parte integrante della pratica clinica, a beneficio diretto dei pazienti.
In cosa consiste l’approccio diagnostico innovativo per l’Alzheimer sviluppato dal suo team al San Raffaele?
«L’aspetto più innovativo è la necessità di una diagnosi che consideri la biologia del processo, mirata all’identificazione precoce della patologia che causa il deficit cognitivo. Ci rivolgiamo a persone che potrebbero avere disturbi soggettivi, ovvero che avvertono difficoltà anche se non evidenti. Questa diagnosi deve essere precoce e specifica. È importante sapere che le alterazioni patologiche nel cervello possono manifestarsi fino a 20 anni prima della comparsa dei sintomi. Per curare efficacemente l’Alzheimer, dobbiamo agire prima che i sintomi si presentino. Se riusciamo a intervenire con farmaci che possono modificare il processo, aumentiamo la probabilità che, anche se i sintomi si sviluppano, siano lievi e gestibili».
Qual è l’importanza di questa diagnosi precoce rispetto ai nuovi farmaci in arrivo?
«La diagnosi precoce sarà cruciale quando i farmaci come Lecanemab e Donanemab, approvati negli Stati Uniti e in fase di valutazione in Europa, diventeranno disponibili. Sarà fondamentale identificare i pazienti adatti a questi trattamenti, poiché non sono efficaci nelle fasi avanzate della malattia. Dobbiamo ridurre il tempo tra la comparsa dei primissimi sintomi e la diagnosi biologica, permettendo un accesso rapido a percorsi diagnostici».
Come si arriva alla diagnosi biologica per l’Alzheimer?
«Una diagnosi biologica richiede la dimostrazione di alterazioni patologiche associate all’Alzheimer. È fondamentale escludere altre malattie neurodegenerative o vascolari, dato che la malattia cerebrovascolare è la seconda causa più comune di decadimento cognitivo dopo l’Alzheimer. Ma non basta escludere altre malattie; è necessario identificare le alterazioni a carico di due proteine specifiche: la beta-amiloide e la tau, che si accumulano nel cervello e causano neurodegenerazione. In passato, l’unico modo per diagnosticare queste alterazioni era attraverso un’autopsia post-mortem. Oggi, invece, abbiamo sviluppato biomarcatori, che però richiedono procedure come la rachicentesi, che comporta dei rischi e costi significativi. Un’altra opzione è la PET amiloide, un esame costoso e non sempre disponibile. Noi stiamo lavorando a un progetto di ricerca che utilizza i biomarcatori ematici. Con un semplice prelievo di sangue, possiamo misurare i livelli delle proteine, e i dati preliminari sono molto promettenti».
Qual è la rilevanza di questo nuovo approccio?
«Abbiamo recentemente pubblicato un lavoro che dimostra una corrispondenza del 97% tra i risultati del prelievo di sangue e quelli della rachicentesi in pazienti affetti da malattia di Alzheimer. Questo approccio ci consente di identificare tre classi di soggetti: quelli senza segni biologici di malattia, quelli con chiari segni di malattia e un gruppo borderline, per cui è necessario approfondire. In questo modo, possiamo riservare gli esami invasivi ai casi che lo richiedono».
Come viene addestrato l’algoritmo di Intelligenza Artificiale che utilizzate?
«Attualmente, il nostro algoritmo si basa su dati di neuroimaging strutturale, in particolare da risonanza magnetica, insieme a dati demografici, di performance cognitiva e genetici. Abbiamo utilizzato sia dati raccolti nel tempo che database pubblici da studi multicentrici, poiché avere dati diversificati migliora l’accuratezza. Ora stiamo integrando i biomarcatori ematici del nostro progetto di ricerca. Ci aspettiamo che l’inserimento di questi dati migliori l’accuratezza dell’algoritmo. In Nord Europa, gli algoritmi basati su biomarcatori biologici hanno un’accuratezza diagnostica del 95-97%, mentre il nostro attuale algoritmo, che utilizza solo risonanza magnetica, arriva a circa l’80%».
Quando potrà essere utilizzato l’algoritmo nella pratica clinica?
«Attualmente, gli algoritmi di Intelligenza Artificiale non sono utilizzabili nella pratica clinica per ragioni medico-legali, specialmente se basati su misure non ancora validate, come i biomarcatori su sangue. Sebbene i biomarcatori ematici siano già in uso nell’ambito di progetti di ricerca, non possiamo produrre referti clinici per i pazienti, poiché questi non sono ancora validati ufficialmente. Quando sarà possibile? Dipenderà dalle normative e dalle necessarie validazioni. Una volta che i dati biologici saranno completamente integrati e validati, potremo utilizzarli parallelamente alla nostra attività clinica».
È necessario creare una regolamentazione per gli algoritmi di Intelligenza Artificiale?
«Assolutamente. Dobbiamo avere una chiara validazione e controllo per garantire che gli algoritmi di Intelligenza Artificiale, utilizzati in ambito clinico, siano affidabili e regolamentati. Questo è fondamentale per l’integrazione pratica nella diagnosi e nel trattamento. La tecnologia deve essere gestita in modo proattivo e continuamente spinta oltre i suoi limiti, poiché questo è il suo scopo principale, ma è fondamentale che essa raggiunga risultati pratici, accessibili e di facile utilizzo. Altrimenti, rischia di rimanere un’interessante applicazione nel campo della ricerca e della scienza, senza mai effettuare il passaggio necessario dalla dimensione speculativa a quella clinica, che è di uso quotidiano. Ritengo che sia ora fondamentale incentivare questo processo di traduzione della tecnologia nella pratica clinica».