Negli ultimi mesi si è parlato tanto dei nuovi anticorpi monoclonali contro l’Alzheimer e di contrasto alla neuroinfiammazione.
Se la cura resta ancora una sorta di Sacro Graal, esattamente come per il virus responsabile dell’AIDS, la scoperta di nuovi farmaci alimenta la speranza che l’Alzheimer, anche se ancora non curabile definitivamente, possa quantomeno essere rallentato in modo efficace. È quanto promettono di fare, ad esempio, i nuovissimi anticorpi monoclonali mirati alla proteina beta amiloide o i nuovi composti allo studio per contrastare la neuroinfiammazione. Sul fronte degli anticorpi monoclonali in meno di un anno sono stati raggiunti risultati eccellenti, anche se ci sono ancora molti dubbi sugli effetti collaterali. Il primo anticorpo anti-amiloide approvato dalla Food and drug administration (FDA) è il lacanemab, sviluppato da Eisai e Biogen, che agisce contro la proteina beta amiloide la quale, accumulandosi nel cervello dei malati, forma le placche che hanno un ruolo chiave nella degenerazione del tessuto nervoso.
Per orientarci fra le novità abbiamo chiesto aiuto a Giacomo Koch, neurologo della Fondazione Santa Lucia; a Matteo Pardini, neuroscienziato del San Martino di Genova; e a Salvatore Cuzzocrea, farmacologo all’Università di Messina.
Il lacanemab ha fatto da apripista agli anticorpi anti-amiloide
Il lacanemab viene assunto ogni due settimane tramite un’iniezione endovenosa. Un ampio studio clinico di fase III denominato CLARITY AD, pubblicato sul New England Journal of Medicine e condotto su 1.795 pazienti, ha dimostrato che il trattamento rallenta del 27% il declino cognitivo e funzionale dei pazienti con Alzheimer in fase iniziale, rispetto al placebo. Nello studio, durato 18 mesi, il farmaco ha anche ridotto drasticamente le placche di beta-amiloide, la proteina tossica presente nel cervello che si ritiene sia alla base dello sviluppo della malattia di Alzheimer. Eisai ha limitato lo studio di lecanemab alle persone con decadimento cognitivo lieve dovuto a malattia di Alzheimer o demenza da malattia di Alzheimer lieve, che mostravano placche di beta-amiloide nel cervello, la cui presenza è stata confermata da PET o esame del liquor. L’indicazione approvata dalla FDA riflette la stessa popolazione ristretta di pazienti, che si stima comprenda circa 1 milione di persone negli Stati Uniti, ovvero poco meno del 20% di coloro che attualmente vivono negli USA con una diagnosi di Alzheimer. Nel frattempo, è in corso un altro studio che sta esaminando l’efficacia del lecanemab per le persone a rischio Alzheimer. Questo include le persone che hanno un parente di primo grado, come un genitore o un fratello, con la malattia.
L’anticorpo monoclonale donanemab, un’altra opzione valida
Subito dopo l’ok al farmaco di Eisai e Biogen sono stati diffusi i promettenti risultati di un altro anticorpo anti-amiloide, il donanemab. Si tratta di un farmaco prodotto dal colosso farmaceutico Eli Lilly, il quale ha riferito che il suo farmaco è in grado di rallentare fino al 35% la progressione della malattia. Donanemab funziona allo stesso modo di lecanemab. Entrambi sono anticorpi simili a quelli che l’organismo produce naturalmente per attaccare i virus, che però sono stati progettati per eliminare la beta amiloide. I dettagli completi dello studio su donanemab devono ancora essere pubblicati, ma Eli Lilly ha anticipato qualche dato chiave in un comunicato stampa. Lo studio di Fase 3 TRAILBLAZER-ALZ 2, un trial clinico randomizzato e controllato con placebo, ha coinvolto circa 1.200 pazienti, uomini e donne, con un’età compresa tra i 60 e gli 85 anni e con diagnosi confermata di Alzheimer. Avevano tutti la malattia sintomatica a uno stadio precoce, caratterizzata da “decadimento cognitivo lieve e lieve stadio di demenza”. A 12 mesi dall’avvio della sperimentazione il 47% dei pazienti trattati con l’anticorpo monoclonale non ha mostrato progressione della malattia contro il 29% del gruppo placebo. A 18 mesi nel gruppo che ha ricevuto il donanemab è stato rilevato un rallentamento del declino cognitivo del 35% e una riduzione della capacità di compiere attività quotidiane inferiore del 40% rispetto al gruppo di controllo. È stato rilevato anche un rischio ridotto del 39% di progressione allo stadio successivo della malattia. I ricercatori di Eli Lilly hanno valutato il trattamento anche in un sottogruppo di pazienti con livelli elevati e intermedi di proteina tau nel cervello, un’altra proteina associata alla neurodegenerazione che provoca l’accumulo di grovigli nel tessuto cerebrale e la conseguente morte dei neuroni. Anche in questi partecipanti è stato rilevato un rallentamento del declino cognitivo tra il 22% e il 29%.
Il nodo degli effetti collaterali dei farmaci anti-amiloide
Tuttavia, l’iniziale entusiasmo per gli anticorpi anti-amiloide è stato parzialmente smorzato dalla comparsa di alcuni effetti collaterali anche molto gravi. Nello studio sul donanemab, i ricercatori hanno riscontrato un edema per lo più lieve o asintomatico in un terzo dei partecipanti. Ma l’1,6% dei pazienti ha sviluppato un pericoloso gonfiore cerebrale, con due decessi attribuiti direttamente ad esso e un terzo sospetto. “Questi risultati – commenta il neurologo Giacomo Koch, professore ordinario di fisiologia all’Università di Ferrara e direttore del Laboratorio di Neuropsicofisiologia sperimentale della Fondazione Santa Lucia – confermano la validità dell’approccio basato su anticorpi in grado di ripulire il cervello dalle placche amiloidi. Ma allo stesso tempo fanno emergere anche un significativo numero di eventi avversi importanti, come piccoli sanguinamenti e infiammazione con rigonfiamento cerebrale”. Un rischio che molti si chiedono se vale la pena correre. Una review pubblicata sulla rivista Neurology, inoltre, mostra chiaramente che gli anticorpi monoclonali che mirano alla proteina beta-amiloide, il cui accumulo è legato alla malattia d’Alzheimer, possono rimpicciolire il cervello e causare gonfiore. Non si conoscono bene le implicazione di questi cambiamenti e non si sa se sono particolarmente dannosi, anche se c’è chi ipotizza possibili danni cerebrali.
Il rimpicciolimento del cervello potrebbe essere una buona notizia
Matteo Pardini, professore associato di Neuroscienze del San Martino e dell’Università di Genova, ritiene che l’effetto collaterale tanto temuto sia in realtà un segnale positivo che il farmaco funziona.
“Recentemente l’attenzione dei media e dei ricercatori – spiega – si è rivolta all’impatto di questi farmaci sul volume cerebrale e sulla relazione tra perdita di volume cerebrale e trattamento. Un dato apparentemente paradossale è quello della riduzione del volume cerebrale nei pazienti trattati che però non deve spaventare. Benché sia necessaria cautela, questo effetto potrebbe essere dato dalla riduzione dell’infiammazione cerebrale secondaria alla rimozione della proteina amiloide. Questo effetto si chiama di ‘pseudoatrofia’ ed è già stato osservato in altri condizioni patologiche in cui si è avuto una riduzione significativa dell’infiammazione cerebrale”. Non è dunque necessariamente una cosa negativa. “Benché siano certamente utili ulteriori studi, diversi dati presenti dei lavori già pubblicati – sottolinea Pardini – supportano questa ipotesi come l’impatto positivo del trattamento sui marcatori circolanti di neurodegenerazione (su sangue e su liquor) nonché la riduzione del declino cognitivo osservato in questi pazienti”.
Allo studio farmaci mirati a contrastare la neuroinfiammazione
Altrettanto promettente, è anche la strada aperta dagli studi sulla neuroinfiammazione. “La caratteristica macroscopica più evidente del cervello di un soggetto affetto da Alzheimer è la marcata atrofia che determina un’aumentata ampiezza dei solchi cerebrali e l’incremento del volume ventricolare”, spiega Salvatore Cuzzocrea, professore ordinario di Farmacologia all’Università di Messina. “L’atrofia è legata alla degenerazione neuronale, dalla quale scaturisce la riduzione del numero di spine dendritiche e conseguentemente di giunzioni sinaptiche, che porta alla scomparsa del neurone. La sfida più importante dei ricercatori – continua – è sempre stata quella di individuare la causa della malattia. Negli ultimi anni sta diventando sempre più significativo lo studio condotto sui processi neuroinfiammatori e sulle cellule non neuronali, in particolare microglia ed astrociti dalle quali la neuroinfiammazione dipende, dal momento che il loro sviluppo e la loro presenza precedono e accompagnano i processi neurodegenerativi. Dunque neuroinfiammazione e neurodegenerazione sono oggi da considerarsi fenomeni strettamente correlati tra loro tanto da poter essere considerati due facce della stessa medaglia“. Ci sono evidenze che supportano l’ipotesi che anche nella malattia di Alzheimer possa essere presente un’importante componente neuroinfiammatoria. “Indagini istopatologiche condotte sul tessuto neuronale hanno messo in evidenza la presenza di cellule di astroglia e microglia attivate in prossimità dei siti di deposizione amiloide, in particolare attorno a placche senili del tipo compatto”, spiega l’esperto. “Dagli esami autoptici condotti su pazienti affetti dal morbo è emersa un’elevata espressione dei livelli di citochine pro-infiammatorie, chemochine, radicali liberi dell’ossigeno e mediatori dell’infiammazione. Numerose evidenze – continua – dimostrano un’associazione tra malattie neurodegenerative, in particolare malattia di Alzheimer, e neuroinfiammazione che può avere inizio tempo prima che si abbia una perdita significativa della popolazione neuronale”.
E se la strategia migliore fosse quella basata su una combinazione di trattamenti?
La complessità nel trattamento delle patologie che colpiscono il cervello risiede nel fatto che è protetto dalla barriera emato-encefalica, che da un lato lo protegge dalle sostanze dannose, dall’altro rende molto più complicato l’accesso ai farmaci. “L’approccio corretto è quello di una terapia multimodale che, sfruttando strategie differenti, miri a salvaguardare il neurone; è questa la sfida alla quale i ricercatori sono chiamati a rispondere”, sottolinea Cuzzocrea. “È importante guardare alle malattie neurodegenerative con una luce differente; agire su tutti quei parametri che promuovono lo sviluppo della neuroinfiammazione significa proteggere e preservare tutte quelle strutture neuronali da tutti quegli insulti che indeboliscono la struttura neurovascolare”, conclude.
Certamente siamo di fronte a un cambiamento di paradigma nel trattamento dei pazienti con la malattia di Alzheimer. Questo sia per la maggiore disponibilità di trattamenti, come ad esempio gli anticorpi anti-amiloide che si spera possano “cronicizzare” la malattia, se non curarla definitivamente; sia per il progressivo aumento della nostra comprensione dei meccanismi, inclusa l’infiammazione, associati al decadimento cognitivo in questa patologia. Forse si continueranno ancora a collezionare fallimenti, ma la strada che abbiano iniziato a prendere sembra finalmente quella giusta.