Alzheimer: passi avanti nella diagnosi precoce e nei trattamenti. Delle innovazioni che promettono di cambiare la storia della malattia che cancella i ricordi – l’Alzheimer è la forma più comune di demenza tra gli over 65 – parliamo con William Vaccani, general manager della divisione farmaceutica PDx di GE HealthCare. E lo facciamo partendo da due novità: l’approvazione da parte della Commissione europea di lecanemab e l’autorizzazione concessa dall’Fda all’uso di un test del sangue per diagnosticare la malattia di Alzheimer.
Ma andiamo con ordine.
Il primo anticorpo monoclonale per l’Alzheimer
Il 15 aprile 2025 è arrivato il via libera dall’Ue per lecanemab (nome commerciale Leqembi): è il primo anticorpo monoclonale approvato in Europa per il trattamento dell’Alzheimer nelle fasi iniziali della malattia. Non è una cura, ma se somministrato precocemente, permette di rallentare la progressione del declino cognitivo agendo sulla proteina beta amiloide, implicata (insieme alla proteina tau) nella neurodegenerazione. Entrambe queste proteine iniziano ad accumularsi nel cervello diversi anni prima della comparsa dei sintomi clinici. Da qui, a maggior ragione, l’importanza del test approvato negli Stati Uniti per accelerare la diagnosi.
Il primo test del sangue per l’Alzheimer
Il 16 maggio 2025 la Food and Drug Administration ha autorizzato la commercializzazione del primo dispositivo capace di supportare la diagnosi precoce rilevando la presenza nel sangue delle proteine beta amiloide e tau, due biomarcatori correlati alla formazione di placche amiloidi nel cervello, a loro volta associate alla malattia. Il test è destinato a persone over 55 anni che mostrano segni e sintomi di declino cognitivo – non allo screening di massa – ed è considerato rivoluzionario, perché fornisce un’opzione meno invasiva e aumenta l’accessibilità della diagnosi, accelerando la presa in carico dei pazienti.
Insomma, da un lato parliamo di un semplice prelievo del sangue che facilita la diagnosi precoce della malattia, e dall’altro di una terapia in grado di rallentarne la progressione.
Una svolta nella gestione dell’Alzheimer

«Tutto questo rappresenta un passo avanti significativo, una svolta nella gestione dell’Alzheimer: cambia proprio il paradigma» afferma Vaccani. «Lecanemab è la prima terapia registrata a livello europeo che migliora il decorso della malattia. L’approvazione dell’Ema segue le approvazioni precedentemente avvenute in Stati Uniti, Cina, Giappione, Corea e UK».
E con l’arrivo di terapie innovative che puntano a modificare la storia naturale della malattia, le cosiddette disease-modifying therapies (l’FDA ha approvato anche donanemab che, invece, in Europa ha ricevuto una battuta d’arresto), «diventa ancora più importante la diagnosi precoce, perché purtroppo quando compaiono i sintomi clinici, il percorso patologico della malattia è già in stadio avanzato. Questo significa anche che il Sistema sanitario nazionale deve prepararsi a prendere in carico nuovi pazienti. Oggi in Italia ci sono 1,2 milioni di persone con demenza, circa la metà sono malati di Alzheimer, ma il dato reale è più alto: tanti restano non diagnosticati».
In Italia si attende ancora la valutazione dell’Aifa per definire le modalità di prescrizione e rimborso del farmaco, in ogni caso l’uso di lecanemab è indicato solo per pazienti con una sola copia o nessuna copia del gene ApoE4, perché nei pazienti con due copie di questo gene il rischio di effetti collaterali dannosi, come eventi ischemici ed emorragie cerebrali, supera i benefici. «Sarà quindi necessario eseguire un test genetico per identificare i pazienti eleggibili alla terapia». Inoltre, come illustrato dall’Agenzia europea per i medicinali, bisognerà effettuare la risonanza magnetica per immagini prima dell’inizio del trattamento e anche durante, per il monitoraggio di eventuali anomalie correlate all’amiloide. Tali alterazioni sono definite Amyloid Related Imaging Abnormalities (ARIA) e, nella maggior parte dei casi, sono asintomatiche, da qui l’importanza di un monitoraggio periodico.
Diagnosi, terapia, monitoraggio: il ruolo chiave della diagnostica per immagini
«In questo nuovo scenario il ruolo della diagnostica cambia radicalmente e diventa centrale» puntualizza Vaccani. Da un lato l’imaging cerebrale non serve più solo a escludere altre cause di decadimento cognitivo, ma a selezionare i pazienti da trattare e a monitorare l’efficacia e la sicurezza della terapia nel tempo. «E dall’altro, il nuovo test del sangue permette di individuare biomarcatori — proprio come avviene con l’esame del PSA per la valutazione del tumore alla prostata — che indicano una presenza potenziale di malattia».
Tuttavia, la sola presenza della proteina amiloide nel sangue non può essere considerata un indicatore specifico di Alzheimer. «Il test ematico – precisa infatti Vaccani – da solo non è sufficiente per una diagnosi definitiva. Questo perché la proteina beta amiloide può depositarsi anche in altri organi e tessuti, non solo nel cervello». Si pensi, per esempio, alla formazione dei depositi di amiloide nel cuore.
Per questo motivo, il percorso diagnostico deve essere strutturato e multilivello: test ematico, imaging cerebrale (PET con tracciante per amiloide o risonanza magnetica) per verificare l’effettiva presenza di depositi di amiloide nel cervello, e test genetico.
Una sfida organizzativa per il sistema sanitario
Questo implica un carico significativo per i servizi di diagnostica, che dovranno gestire sia le nuove diagnosi che il follow-up terapeutico.
«E comporta inevitabilmente una sfida organizzativa importante per i sistemi sanitari nazionali. Servono strutture attrezzate – sottolinea Vaccani – personale adeguatamente formato, capacità diagnostiche avanzate e protocolli condivisi per la gestione dei pazienti». E da un’indagine pubblicata su Journal of Alzheimer’s Disease, emerge che in Italia i Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze vanno potenziati, al fine di poter garantire diagnosi accurate e prescrizioni efficaci sulla base del profilo genetico dei pazienti.
Non si tratta solo di individuare il paziente giusto per la terapia, ma anche di accompagnarlo lungo l’intero percorso clinico. «Basti pensare – aggiunge Vaccani – che un semplice mal di testa, magari dovuto a un raffreddore, potrebbe essere confuso con un possibile effetto collaterale del trattamento. O, inopportunamente sottovalutato». Senza una presa in carico multidisciplinare, quindi, «il sistema rischia di non reggere l’arrivo di migliaia di potenziali nuovi pazienti».
Multidisciplinarietà e collaborazione
Per garantire un accesso equo, sicuro ed efficace a queste innovazioni, è indispensabile una collaborazione stretta tra tutti gli attori coinvolti: industria, istituzioni, società scientifiche e professionisti sanitari.
Serve un approccio multidisciplinare, sia a livello di governance che di clinica. «L’interazione tra aziende, enti regolatori, associazioni scientifiche e decisori politici sarà essenziale per definire linee guida, garantire l’accesso e la sostenibilità. E neurologi, geriatri, genetisti, radiologi, medici nucleari e psicologi dovranno lavorare fianco a fianco per costruire un percorso diagnostico-terapeutico personalizzato per ciascun paziente. La parola chiave, quindi, è collaborazione» conclude Vaccani.