“Il racconto che i giornali italiani hanno fatto dell’ultimo meeting dell’American Society of Clinical Oncology di Chicago (ASCO) è ben diverso da quanto invece si legge dai bollettini ufficiali diffusi dalla stessa società scientifica. Sui quotidiani le ricerche sono ‘iperpresentate’ ed estremamente ottimistiche. Nella realtà, anche se sono stati presentati dei risultati ottimi, non sono state annunciate scoperte rivoluzionarie. Nessuno è stato in grado di trasformare il piombo in oro”. A dirlo è Federico Caligaris Cappio, direttore scientifico della Fondazione AIRC, che sulla ricerca oncologica evidentemente non le manda a dire.
Quali sono i rischi di una narrazione eccessivamente entusiastica della ricerca?
“Quello che a me spesso preoccupa, soprattutto pensando ai pazienti e alle associazioni dei pazienti, sono le conseguenze dell’eccessiva enfasi. All’inizio i pazienti possono avere l’illusione che tutti i problemi siano stati risolti quando poi si accorgono che non è così perdono la fiducia nella ricerca, l’unica arma che abbiamo per rendere il cancro più curabile. Sono convinto, quindi, che non dobbiamo essere enfatici. Dobbiamo invece spiegare bene ai pazienti come stanno le cose e, in generale, dobbiamo spiegare all’opinione pubblica quali sono i risultati ottenuti e quali sono i limiti”.
Qual è quindi la direzione che sta prendendo la ricerca oncologica mondiale e, in particolare, italiana?
“Dal mio punto di vista la cosa più importante emersa a Chicago è che oggi abbiamo dei risultati sempre più promettenti legati soprattutto al fatto che le tecnologie ci consentono di ottenere sempre più rapidamente le risposte che cerchiamo. Dal canto nostro, come AIRC finanziamo i progetti per cui ci arrivano le proposte, dopo un’attenta valutazione. I progetti dunque riflettono, almeno in parte, la direzione presa dalla ricerca nel mondo. Tra gli obiettivi c’è soprattutto l’immunoterapia e gli studi per comprendere meglio i tumori che, al momento, sono dei veri e propri ‘buchi neri’, come i tumori cerebrali, pancreatici, ovarici e altri ancora. Insomma, tutti quei tumori in cui si hanno meno risultati e contro i quali ci sono meno speranze. E ovviamente si punta a potenziare le applicazioni tecnologiche. Come AIRC continueremo inoltre a sostenere il nostro progetto che ha come obiettivo aiutare i giovani e far crescere nuovi talenti”.
A volte si ha l’impressione che da una scoperta alla clinica passi troppo tempo. È così?
“Ci sono delle eccezioni nella storia, come la scoperta del DNA o di tecnologie come CRISPR/Cas9. In generale, ottenere buoni risultati con la ricerca è come costruire un muro. Per avere una bella costruzione, quindi degli ottimi risultati, bisogna mettere un mattone sopra l’altro. Ci vuole dunque tempo e soprattutto ci vuole la validazione a livello internazionale del risultato ottenuto”.
Il lavoro di Franco Locatelli con le CAR-T, che la stessa AIRC ha sostenuto, è un’eccezione?
“Direi di sì. I risultati raggiunti dal professor Locatelli sono eccellenti e aprono la strada anche all’applicazione contro altri tumori. Le CAR-T si sono rivelate da subito un approccio promettente contro alcuni tumori ematologici, non tutti e non si riesce ancora a capire perché. Allo stesso modo pensavamo non potessero funzionare contro i tumori solidi. Finché Locatelli è riuscito ad applicarle con successo anche contro quest’ultimi. E lo ha fatto, per giunta, contro un tumore del sistema nervoso centrale, notoriamente difficile e complicato. Questo ci fa ben sperare che ci siano possibilità anche per quei tumori che sono ancora dei ‘buchi neri’”.
Come ridurre i tempi del trasferimento in clinica?
“In realtà i tempi del trasferimento in clinica si sono accorciati di molto e questo grazie al contributo fondamentale della tecnologia. Quello che oggi riusciamo a fare in un mese, una volta richiedeva qualcosa come un anno e mezzo di tempo. Quindi le nuove tecnologie aiutano tantissimo. Però, come sempre succede, una volta ottenuto un certo risultato questo va validato anche da altri scienziati. È importante che tutti riescano a vedere e riprodurre gli stessi risultati“.
Ma perché è così difficile trovare una cura per il cancro?
“Perché una sola cura non basta. Sappiamo infatti che esistono oltre 200 tipi diversi di tumori. Alcuni di questi sono ‘guaribili’ perché di questi abbiamo capito il meccanismo molecolare. Quindi la terapia è riuscita a intervenire. Ma per gli altri non ancora, abbiamo dei miglioramenti ma non la cura. Io sono convinto che ci si arriverà, ma ci vuole tempo, ricerca, fatica e pazienza”.
In Italia si investe poco in ricerca, in che modo AIRC pensa di poter sopperire a questa carenza?
“AIRC è perfettamente consapevole del fatto che la sua mission, quella di sostenere e promuovere la miglior ricerca oncologica in Italia, è di enorme importanza sociale. Vogliamo investire sui giovani, evitando che i nostri ricercatori vadano all’estero e attirando quelli che lavorano già fuori i confini nazionali. Sappiamo di avere un problema di infrastrutture e che le migliori si trovano quasi tutti al Nord. Ma è un problema che hanno tutti i paesi. In Inghilterra, ad esempio, le grandi infrastrutture sono a Londra, Oxford e Cambridge. In Francia le infrastrutture sono a Parigi e forse a Marsiglia e così via. Pensare di crearne tante non è una strada percorribile”.
Allora come superare il problema della disomogeneità delle infrastrutture di ricerca in Italia?
“Con AIRC stiamo cercando di costruire delle reti affinché i ricercatori interagiscano fra di loro in modo da avere una massa critica connessa. Pensiamo che questa rete possa permettere ai ricercatori, soprattutto ai giovani, di muoversi anche da una sede all’altra e così via. Pensiamo quindi che la miglior strategia sia quella di mettere a fattor comune le infrastrutture. Non è possibile pretendere che ogni centro, piccolo o grande che sia, possa avere tutte le infrastrutture. È inimmaginabile e irrealistico. Richiederebbe investimenti mostruosi perché le tecnologie evolvono e cambiano in continuazione e non riusciremmo a stare al passo. Il problema delle tecnologie poi non è rappresentato tanto dalle macchine quanto piuttosto dalle persone che le devono far funzionare. Per cui, anche nella ricerca oncologica, sono necessarie una buona pianificazione, organizzazione e competenza”.