Dall'accademia all'industria: la piattaforma CAR-T scalabile pronta per il trasferimento tecnologico

Dall’accademia all’industria: la piattaforma CAR-T scalabile pronta per il trasferimento tecnologico

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Michela Moretti

Perché ne stiamo parlando
Il Prof. Andrea Biondi racconta le sfide e i progressi di una piattaforma CAR-T sviluppata interamente in ambito accademico e per la quale è già aperto il dialogo con AIFA.

Il team guidato dal Prof. Andrea Biondi, direttore scientifico della Fondazione Tettamanti, ha sviluppato una piattaforma unica di CAR-T che si distingue dai prodotti attualmente disponibili. Un progetto nato a Monza, in collaborazione con l’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e pensato per offrire terapie sostenibili, sicure e scalabili.

Prof. Biondi, in che modo il vostro prodotto si differenzia dalle terapie CAR-T commerciali già disponibili?

«Il nostro prodotto presenta tre elementi di novità. Primo, affrontiamo il tema della sostenibilità. I prodotti attuali hanno costi molto elevati, creando problemi seri nei paesi con sistemi sanitari universalistici come quelli europei. Secondo, il nostro è un prodotto preparato da cellule allogeniche, quindi da cellule non del paziente ma da un donatore. Terzo, abbiamo adottato un approccio non virale per introdurre il gene “radar” dentro i linfociti T, con vantaggi in termini di costi e sicurezza. Questo è particolarmente importante per alcune categorie di pazienti, come quelli HIV positivi, che non possono utilizzare prodotti preparati con vettori virali».

Può spiegare in sintesi l’evoluzione tecnologica della vostra piattaforma?

«Tutto è iniziato prima del 2015, quando in collaborazione con il Dr. Martino Introna e il Prof. Alessandro Rambaldi di Bergamo abbiamo iniziato le prime sperimentazioni cliniche con un particolare tipo di cellule T, dette CIK, che hanno una proprietà di killing naturale contro un bersaglio tumorale, anche se provenienti da un donatore compatibile, senza innescare rigetto o la malattia del trapianto contro l’ospite, quando utilizzate per controllare la ripresa di malattia dopo un trapianto di cellule staminali ematopoietiche.

Nel 2015, abbiamo deciso di potenziarne l’efficacia introducendo un recettore CAR. È stato un percorso coraggioso, fatto interamente in ambito accademico e sotto gli standard della Good Manufacturing Practice (GMP), come farebbe un’azienda farmaceutica, che sono richiesti dal regolatore per garantire la sicurezza, l’efficacia e la qualità costante del prodotto terapeutico.

E come le aziende farmaceutiche, siamo passati attraverso la fase preclinica fino agli studi sull’uomo, grazie al generosissimo supporto di charity locali (Fondazione Maria Letizia Verga e Fondazione Tettamanti), di AIRC e finanziamenti pubblici per la ricerca indipendente».

Quali risultati avete ottenuto finora?

«Dopo la fase 1/2 ( per valutare tossicità e identificare la dose efficace), abbiamo completato una Fase 2 con 36 pazienti con leucemia linfoblastica acuta di tipo B recidivata (abbiamo parlato dei risultati dello studio qui), un numero molto significativo per una realtà accademica anche a confronto con quelli che sono stati i numeri degli studi registrativi dei prodotti analoghi.

I dati mostrano che il prodotto è sicuro, con una tossicità molto inferiore rispetto alle CAR-T oggi disponibili, sia per quanto riguarda la sindrome da rilascio di citochine (CRS) che la neurotossicità. L’efficacia è molto simile a quella dei due prodotti oggi disponibili per pazienti pediatrici e giovani adulti fino a 25 anni, e a quella di un prodotto recentemente approvato anche per adulti».

Quali sono ora i vostri piani di sviluppo clinico?

«Abbiamo già attivato un programma di uso compassionevole per continuare a offrire la terapia a pazienti che non rientrano nei criteri delle CAR-T approvate. In parallelo, è partito un nuovo studio clinico su casi refrattari e recidivanti di linfomi Non-Hodgkin (LNH) e altri tumori della linea B che non sono elegibili ai prodotti attualmente disponibili.

In questo studio, la sorgente delle cellule CARCIK sarà un donatore familiare compatibile o aploidentico. Inoltre, abbiamo già completato lo scaling-up per l’utilizzo di unità di sangue del cordone crioconservato, aprendo nuove prospettive per un potenziale prodotto che possa essere “pronto all’uso”».

Quanti centri in Europa stanno seguendo un percorso simile?

«Pochissimi, credo in Europa non arriviamo a più di 5. In Italia siamo noi a Monza e il Bambin Gesù a Roma. Nel Regno Unito c’è il Great Ormond Street Hospital, e in Germania un altro centro. Bisogna distinguere tra chi utilizza un prodotto oggi disponibile, come del resto anche a Monza e Bergamo per le indicazioni per cui i pazienti sono elegibili ai prodotti messi a disposizione delle aziende farmaceutiche, e lo sviluppo di prodotti innovativi che affrontino l’intero processo, dalla ricerca alla produzione».

Qual è il ruolo dell’accademia in questo campo, rispetto alle grandi aziende farmaceutiche?

«Il ruolo dell’accademia non è mettersi in competizione con le big pharma ma promuovere l’esplorazione di utilizzi innovativi in ambiti e modalità diverse da quelle per cui le aziende farmaceutiche non sono sempre interessate allo sviluppo.

Dobbiamo aprirci ad ambiti ancora nella “desert valley”, come le leucemie mieloidi o i tumori solidi, dove non abbiamo nessun prodotto disponibile. Inoltre, dobbiamo coprire tutte le nicchie per le quali i prodotti oggi disponibili non sono utilizzabili, come nel caso dei pazienti HIV positivi. Laddove non ci sono prodotti messi a disposizione delle aziende farmaceutiche, è l’accademia a dover avanzare. È anche una questione di equità».

Avete già trasferito la vostra tecnologia ad altri centri GMP?

«Sì, abbiamo realizzato un tech transfer con Bergamo. La documentazione di equivalenza del prodotto è stata approvata da AIFA, che ha autorizzato un secondo sito produttivo. Siamo aperti a collaborazioni anche fuori dalla Lombardia. Il problema in Italia non è la mancanza di strutture GMP, ma la loro reale operatività. Come è stato rilevato da molti, il numero di cell-factory in Italia è sproporzionato rispetto a quante sono effettivamente attive e producono».

Avete quindi già avviato un dialogo con AIFA?

«Sì, abbiamo chiesto un’audizione all’Ufficio Innovazione di AIFA per presentare i dati dello studio e verificare se soddisfa anche i criteri regolatori per un eventuale percorso di registrazione. Questo passaggio è fondamentale per rendere il nostro prodotto interessante per potenziali partner industriali. Vogliamo seguire il percorso istituzionale corretto, passando prima dalla nostra agenzia regolatoria nazionale per poi eventualmente rivolgerci all’EMA, che oggi offre opportunità di valutazione attenta a prodotti accademici nei quali promettenti, al di là dell’hospital exemption».

È possibile che la vostra piattaforma venga portata avanti solo dall’accademia?

«L’accademia può innovare, esplorare indicazioni trascurate, generare terapie più accessibili. Ma non può trasformarsi in industria. Il passo successivo, naturale, è il trasferimento verso una realtà industriale. Il nostro prodotto è allogenico, non virale, pensato per essere scalabile e sicuro. Se un’azienda ne riconosce il potenziale – anche in termini di sostenibilità economica – siamo pronti a collaborare».

Quali sono le prossime tappe?

«Oltre al prodotto per la leucemia linfoblastica, entro l’anno vorremmo portare in clinica anche una terapia per le leucemie mieloidi. Gli ospedali non devono diventare fabbriche, ma possono colmare un vuoto quando il mercato non offre soluzioni. Lo scenario cambia invece per le malattie rare e ultra-rare: lì la produzione accademica può e deve avere un ruolo, come già esplorato con successo dalla Fondazione Telethon».

Keypoints

  • Il Prof. Andrea Biondi presenta una piattaforma CAR-T accademica innovativa, ora pronta per il trasferimento tecnologico all’industria
  • La piattaforma, sviluppata a Monza, è allogenica, non virale e progettata per essere scalabile, sicura e sostenibile
  • Il progetto nasce interamente in ambito accademico, secondo standard GMP, ed è già in dialogo con AIFA per la registrazione
  • I dati clinici su 36 pazienti con leucemia linfoblastica acuta mostrano tossicità ridotta ed efficacia comparabile alle CAR-T commerciali
  • Sono in corso studi su linfomi B e nuove fonti cellulari come sangue cordonale per un prodotto pronto all’uso
  • L’accademia esplora indicazioni non coperte dall’industria, come pazienti HIV+ o tumori solidi, colmando vuoti terapeutici
  • Il passaggio all’industria è essenziale per garantire accessibilità e sostenibilità

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