Si contano ormai circa 20 terapie geniche approvate in Europa ad oggi, e una, Casgevy, approvata poco più di un anno fa, è la prima terapia basata sulla tecnologia CRISPR/Cas9 (tratta l’anemia falciforme).
La rivoluzione CRISPR ha un prezzo, e attualmente è astronomico. Con un costo che si aggira intorno ai 2 milioni di dollari per paziente, queste terapie rischiano di creare una medicina a due velocità: innovativa ma poco accessibile. Solo poche centinaia di persone in tutto il mondo l’hanno ricevuta, stando ad un recente rapporto dell’FDA.
I processi produttivi altamente specializzati e i rigorosi standard di sicurezza necessari per la manipolazione genetica rappresentano barriere difficili da superare, e di questo si è parlato nella CRISPR MEDiCiNE Conference, dove gli scienziati hanno portato le prime soluzioni: come il tentativo di somministrare le terapie in vivo, un approccio che potrebbe rappresentare il futuro dell’editing genetico.
Spiega Karim Benabdellah dell’Università di Granada, membro del comitato scientifico del convegno «questo è davvero sfidante, perché quasi tutti gli approcci di editing genetico sono basati sull’ex vivo». Nell’approccio ex vivo, le cellule devono essere estratte dal paziente, modificate geneticamente e poi reinfuse, un processo che somma complessità e costi. «L’approccio in vivo, che permetterebbe di modificare le cellule direttamente nel corpo del paziente, rappresenterebbe un significativo passo avanti».
A tal riguardo, Alessia Cavazza dell’UCL di Londra e dell’Università di Modena e Reggio Emilia, anche lei membro del comitato scientifico di CRISPRMed2025, ha presentato i suoi ultimi dati su approcci in utero per malattie da accumulo lisosomiale (dove si accumulano sostanze di scarto nei lisosomi). Ma il quadro complessivo resta ancora preliminare.
«Molti dei dati presentati – ha sottolineato Cavazza – sono ancora proof-of-concept in vitro, senza risultati concreti in vivo. Il muscolo e il fegato restano i target più esplorati, ma siamo ancora lontani da risultati applicabili».
Nel frattempo, ci sono molti studi su come migliorare i processi ex vivo: «Il nostro focus, ha spiegato Alessia Cavazza, è diventato ormai il refinement, il perfezionamento: risolvere i problemi ancora aperti, come mantenere l’identità staminale durante la manipolazione». Quando si modificano le cellule staminali del sangue (HSPC) in laboratorio, specialmente per correzioni genetiche complesse, bisogna attivarle ex vivo, ma questo processo le stressa: le cellule vengono rimosse dal loro ambiente naturale nel midollo osseo e coltivate su superfici piatte, causando danni al DNA e perdita delle loro funzioni staminali.
«Per superare questo problema di grande rilievo è stato il lavoro che ha presentato Raffaella Di Micco del San Raffaele Tiget». Di Micco ha sviluppato un’impalcatura 3D biocompatibile che riduce i danni al DNA, mantiene la morfologia nucleare e migliora significativamente la capacità delle cellule di formare colonie e svilupparsi in diverse linee cellulari del sangue. L’analisi genetica ha rivelato che le cellule coltivate in questo ambiente 3D preservano caratteristiche tipiche delle cellule staminali primitive.
Questo approccio innovativo è risultato efficace con diverse fonti cellulari e varie tecniche di editing genetico, ed è stato implementato con successo nel protocollo di terapia genica per la Sindrome di Wiskott-Aldrich. La strategia di coltura 3D proposta da Di Micco può essere facilmente integrata nei protocolli clinici esistenti, migliorando l’efficacia e la sicurezza dei trattamenti di terapia genica.
Tendenze in sviluppo
I laboratori di tutto il mondo stanno lavorando freneticamente per superare l’ostacolo più grande dell’editing genetico: consegnare il pacchetto terapeutico precisamente alle cellule bersaglio. «Abbiamo discusso molto su come possiamo raggiungere la cellula giusta nel momento giusto facendo l’editing genetico», riferisce Karim Benabdellah, sottolineando l’importanza di “consegnare questa molecola specifica senza perturbare il fenotipo normale” ovvero, le caratteristiche funzionali e strutturali che definiscono l’identità cellulare.
Cavazza segnala l’intervento di Matthew Porteus della Stanford University, che ha presentato la tecnica di editing genetico di riparazione diretta per omologia (HDR) che utilizza i meccanismi naturali delle cellule, può essere applicata a diversi tipi di cellule, consente vari tipi di modifiche genetiche e mantiene un’alta efficienza. «Matt Porteus ha utilizzato questa tecnica HDR per affrontare diverse malattie come l’anemia falciforme, la fibrosi cistica, la malattia di Huntington, e l’HIV, il cui programma è in stato avanzato».
Pipeline e studi clinici
Il fermento clinico attorno alle terapie di editing genetico è palpabile. Intellia Therapeutics ha già raggiunto la fase 3 di sperimentazione con una terapia CRISPR mirata alle malattie epatiche, avvicinandosi significativamente all’approvazione commerciale. Ma «il percorso che porta un’innovazione genetica dal bancone del laboratorio al letto del paziente è ancora tortuoso e proibitivamente costoso», sostiene Karim Benabdellah.
Servono in media 4 anni e oltre 8 milioni di dollari solo per arrivare alla fase di Investigational New Drug (IND), il primo passo del processo di approvazione FDA. Un collo di bottiglia che rallenta l’innovazione, specialmente per le malattie rare dove il ritorno economico è limitato. La questione è abbastanza complessa perché tutte le nuove tecnologie richiedono nuovi studi», afferma Benabdellah, aggiungendo che «gli organismi regolatori sono abbastanza preoccupati per il potenziale effetto di questo tipo di tecnologia» e richiedono test rigorosi per ridurre al minimo i potenziali effetti off-target.
La necessità di dati a lungo termine
Un aspetto critico evidenziato da Karim Benabdellah è la mancanza di dati a lungo termine sugli effetti dell’editing genetico nei pazienti. «Purtroppo, non possiamo ancora rispondere a questa domanda perché la tecnologia è estremamente nuova – ammette – Non abbiamo abbastanza dati per fare un tipo di follow-up dei potenziali pazienti che sono già stati trattati» . Solo con il tempo e con un numero maggiore di pazienti trattati sarà possibile raccogliere “dati più solidi e coerenti” sulla sicurezza a lungo termine di queste tecnologie.