Daniela Bellomo, San Raffaele: il successo nel tech transfer? Avere le competenze, lo spirito imprenditoriale, e la capacità di superare i nostri limiti culturali

Daniela Bellomo, San Raffaele: «Il successo nel Tech Transfer? Avere le competenze, lo spirito imprenditoriale, e la capacità di superare i nostri limiti culturali»

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Michela Moretti

Perché ne stiamo parlando
Una combinazione di grande scienza, cultura traslazionale, e un team con competenze scientifiche e di business, capace di attrarre investimenti e garantire ritorni economici. Questa la ricetta del successo del San Raffaele nel Tech Transfer, secondo la mente che lo gestisce, Daniela Bellomo.

L’ospedale San Raffaele nel campo del trasferimento tecnologico è una realtà quasi unica in Italia. Come confermano i dati al 2024: 5 spin-off aziendali e 812 brevetti depositati (450 nell’area delle terapie cellulari e geniche e 224 in quella dell’immunologia e delle malattie infettive), di cui oltre la metà sono stati valorizzati tramite accordi di licenza e accordi di sviluppo con l’industria Biotech, Pharma e Medtech (447 accordi e 74 licenze) o attraverso finanziamenti europei dedicati allo sviluppo di prodotto, con notevoli ricavi, tra royalty e proventi.

La realtà milanese, nota per l’impegno nel campo delle terapie geniche, sta cominciando a ottenere risultati significativi anche in oncologia, immunologia e neurologia. E si sta cimentando ad alta velocità nello sviluppo di software che combinano Intelligenza Artificiale e dispositivi per uso diagnostico e predittivo, con l’istituzione di un centro di Intelligenza Artificiale in collaborazione con Microsoft.

Quali sono gli aspetti (non scontati) che hanno facilitato il Tech Transfer al San Raffaele, un percorso ancora lento e poco “oliato” in generale in Italia? Lo abbiamo chiesto a Daniela Bellomo, Direttrice del Business Development dell’Ospedale San Raffaele e Coordinatrice del Tech Transfer per gli altri IRCCS del Gruppo San Donato.

«Secondo me, il segreto sta nella grande scienza e nel personale qualificato, perché questo è un mondo fatto di persone – spiega Daniela Bellomo – Abbiamo sviluppato una cultura traslazionale, ovvero la capacità di trasformare la ricerca in applicazioni cliniche. In questo approccio ci aiuta il fatto di essere un IRCCS, un ospedale universitario di ricerca, con un personale specializzato e un ufficio di trasferimento tecnologico con una solida formazione scientifica. Non si tratta solo di avere un brevetto, ma di offrire una soluzione a un bisogno medico. Come lo dimostriamo? Con la presenza di clinici: abbiamo qui non solo i ricercatori, ma anche i primari (per esempio di radiologia e oncologia) che confermano l’efficacia delle soluzioni ideate da un ricercatore».

Non si tratta solo di avere bravi ricercatori dunque…

«Le parole di Lita Nielsen, che per molti anni è stata Direttore del Tech Transfer al MIT, sono molto illuminanti. Secondo lei, per fare bene questo lavoro, sono necessarie competenze e talento. Parla di talento come una predisposizione imprenditoriale al business, una qualità che non si acquisisce necessariamente con un MBA. È proprio una cultura quella di lavorare all’interno di un’università come se fosse un’azienda, cercando di ottenere risultati concreti. Questa cultura richiede determinazione, capacità di negoziazione con le aziende e la condivisione del rischio per realizzare accordi e startup».

Che skills hanno i membri del suo team?

«Non possiamo affidare il Tech Transfer a un avvocato o a un amministrativo, servono persone con un’alta formazione scientifica e competenze di business. Noi proponiamo un business case alle aziende: è questo ciò su cui loro investono. È fondamentale fornire all’investitore una chiara idea di come potrà ottenere un ritorno economico, considerando che deve investire una somma considerevole. Ad esempio, per sviluppare un nuovo farmaco, sono necessari in media un miliardo e mezzo di Euro ma se ne possono generare molti di più nel breve periodo di validità del brevetto. Quindi, dobbiamo spiegare all’azienda che oggi sta investendo in un prodotto con un rischio di fallimento dell’80-90%, ma anche ad alto potenziale di guadagno. Come possiamo garantire un alto rendimento? Dobbiamo dimostrare che il prodotto potrà essere venduto e che risponderà a un bisogno medico reale».

Intende dire che i vostri ricercatori hanno anche una mentalità commerciale?

«Bisogna selezionare persone non solo competenti, ma anche motivate e prive di pregiudizi. Se si pensa che nell’accademia si facciano solo cose accademiche, si ha un pregiudizio verso l’industria e il mondo commerciale. Questo impedisce di portare soluzioni ai pazienti, che è lo scopo finale di medici e ricercatori. Le nuove generazioni hanno una predisposizione a vedere i prodotti realizzati, ma devono essere anche disposte a utilizzare processi commerciali, che includono pranzi e cene con investitori, come fanno i Venture Capitalists e gli uomini d’affari. Continuare a creare network è essenziale per il successo. Dobbiamo muoverci con la rapidità dell’industria internazionale».

Come riuscite a essere veloci in Italia rispetto a competitors di madrelingua inglese, ad esempio?

«Bisogna cercare di andare oltre i limiti culturali che hanno creato stereotipi all’estero rispetto al sistema italiano.

Noi vediamo circa 500 aziende all’anno e stipuliamo 140 accordi di riservatezza per iniziare la due diligence con 140 aziende e Venture Capitalists ogni anno, il che significa che questi investitori potenziali devono esaminare tutti i dati, i brevetti, il progetto industriale e così via. È fondamentale essere sempre pronti a rispondere adeguatamente, senza esitazioni, per portare avanti il progetto al passo successivo. Stabilire relazioni è il primo punto.

Una lezione importante che ho imparato dal mondo del Venture Capital è che, un po’ controintuitivamente, le tre cose più importanti in un prodotto tecnologico proveniente dall’accademia sono le persone, le persone e le persone. La tecnologia, soprattutto nelle fasi iniziali, è strettamente legata alle persone che la sviluppano. Come ricercatore, devi avere una predisposizione alla discussione. Devi essere sempre pronto a rispondere alle domande e risolvere i problemi. Come Tech Transfer Officer, devi essere pronto a trovare soluzioni negoziali ma anche tempestivo a inviare e rivedere i contratti, e soprattutto, devi essere sempre disponibile con tutti».

Quali altri aspetti è necessario tenere in considerazione?

«Un aspetto fondamentale è che bisogna sostenere queste iniziative a lungo termine. Il Tech Transfer richiede tempo e risorse per svilupparsi. È fondamentale avere alle spalle una struttura solida che possa supportare queste attività nel tempo, perché non si costruiscono in un minuto. Il Tech Transfer di San Raffaele, ad esempio, è nato nel 1992. I risultati significativi sono arrivati solo molti anni dopo. Io sono arrivata in Italia dall’Australia nel 2002, dopo aver completato un PhD e un MBA. Nei sette anni successivi, ho lavorato per costruire qualcosa che non esisteva. Ma ci vogliono anni di supporto costante alle spalle, come dimostra anche l’Imperial College di Londra. L’Imperial, che è diventata una delle migliori Università del mondo, ha ottenuto ottimi risultati anche nel Tech Transfer. Questo dimostra che con il giusto sostegno e tempo, è possibile raggiungere grandi traguardi».

E come si può superare l’ostacolo della burocrazia, che può pesare in particolare sulle realtà pubbliche in Italia?

«Gli ospedali di ricerca italiani, gli IRCCS, affrontano molti vincoli burocratici. Gli ospedali pubblici devono seguire procedure complesse per ottenere un brevetto, come fare bandi pubblici per selezionare un consulente brevettuale. Questo rallenta enormemente il processo e dovrebbe essere reso più facile.

Noi abbiamo la fortuna di operare in modo più snello, con le deleghe necessarie per stipulare accordi e gestire brevetti, e ciò consente di agire più rapidamente, evitando molti dei passaggi burocratici che altre realtà devono ancora affrontare.

Il problema è sistemico: qui ancora non si forniscono gli strumenti necessari per operare con la rapidità richiesta. Alcune istituzioni, come il Politecnico di Milano con il suo PoliHub, hanno trovato soluzioni innovative. PoliHub, una Fondazione creata dal Politecnico, può agire molto più rapidamente rispetto all’istituzione madre. Questo permette di gestire startup e altre iniziative in modo più efficiente, dimostrando che con una struttura adeguata, si possono ottenere risultati significativi».

Keypoints

  • Il San Raffaele ha creato 5 spin-off aziendali e depositato 812 brevetti, con 447 accordi di sviluppo e 74 accordi di licenza con l’industria Biotech, Pharma e Medtech
  • Daniela Bellomo, Direttrice del Business Development del San Raffaele, attribuisce il successo al personale altamente qualificato e alla cultura traslazionale dell’istituto
  • Il team di Tech Transfer del San Raffaele combina competenze scientifiche e di business, cruciali per attrarre investimenti e garantire ritorni economici
  • L’ospedale seleziona ricercatori con una mentalità commerciale, capaci di negoziare con aziende e condividere il rischio per sviluppare nuovi prodotti
  • Il San Raffaele supera le limitazioni burocratiche italiane grazie a una struttura operativa snella che permette rapide decisioni e gestione dei brevetti
  • Il supporto a lungo termine è essenziale per il successo del Tech Transfer, come dimostrato dalla crescita del San Raffaele dal 1992 e l’esperienza dell’Imperial College di Londra

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