La stragrande maggioranza della popolazione nel Regno Unito è favorevole all’uso dei test genetici per migliorare la prescrizione dei farmaci e ridurre il rischio di effetti collaterali. Lo rileva una ricerca realizzata dalla Queen Mary University di Londra, finanziata dal National Institute for Health and Care Research (dai Centri di ricerca biomedica di Barts e Manchester).
Cosa dicono i cittadini UK sui test farmacogenomici
L’85% degli intervistati ritiene che il Servizio sanitario nazionale (NHS) dovrebbe offrire i test farmacogenomici alle persone con più patologie che assumono regolarmente più farmaci. Il 58% pensa che questi test dovrebbero essere disponibili per tutti. Il 91% vorrebbe avere accesso ai propri dati farmacogenomici, ed essere parte attiva nelle decisioni terapeutiche.
A fronte di effetti collaterali e terapie inefficaci, «la popolazione, insomma, è favorevole all’idea di personalizzare le prescrizioni dei farmaci sulla base delle informazioni genetiche e ritiene che la farmacogenomica debba diventare parte integrante dell’assistenza sanitaria nel Regno Unito». Sintetizza così Emma Magavern, ricercatrice al Centro di Farmacologia clinica e medicina di precisione della Queen Mary, lo studio che ha coordinato.
Che cos’è la farmacogenomica
La farmacogenomica combina la farmacologia (lo studio dei farmaci) con la genomica (lo studio dei geni e delle loro funzioni) per sviluppare terapie personalizzate in base al patrimonio genetico di ciascun individuo. Studia cioè come il nostro DNA influisce sulla risposta ai farmaci. E, in quanto tale, è un pilastro della medicina personalizzata.
Oggi, infatti, grazie alle conoscenze acquisite sul genoma umano, e sui geni che codificano per enzimi coinvolti nell’attività e nella tossicità dei farmaci, è possibile studiare le cause della variabilità individuale nella risposta ai trattamenti farmacologici e permettere ai clinici di predire la dose appropriata e/o il farmaco giusto per ciascun individuo, riducendo il rischio di effetti collaterali o di alcun effetto desiderato.
Soggetti diversi, infatti, rispondono in modo diverso alla stesso farmaco somministrato alla stessa dose. Perché il modo in cui un farmaco agisce può dipendere dalle variazioni genetiche di ciascun individuo. E così, alcuni medicinali potrebbero risultare meno efficaci o causare gravi effetti collaterali in chi presenta determinate mutazioni genetiche.
Perché la farmacogenomica è importante?
Come indicato dal team della Queen Mary University, gli effetti collaterali sono responsabili di circa un ricovero su 16 e si stima che costino al sistema sanitario inglese tra 530 milioni e 2,2 miliardi di sterline ogni anno.
Per cui, l’integrazione della farmacogenomica nella pratica clinica non solo gioverebbe alla salvaguardia della salute – favorendo la scelta del farmaco più adatto, riducendo il rischio di effetti collaterali, aumentando l’efficacia della terapia farmacologica e contribuendo a renderla più sicura; ma la personalizzazione delle cure sarebbe uno strumento utile anche per ottimizzare le risorse sanitarie. «Utilizzare la farmacogenomica potrebbe ridurre costi e liberare risorse» affermano la Royal College of Physicians e la British Pharmacological Society.
Da qui, l’importanza di integrare i test farmacogenomici nella pratica clinica e di accelerarne l’adozione. Perché, come spiega il team britannico, «l’implementazione clinica è rimasta indietro rispetto alla scienza».
L’indagine nel Regno Unito
Per sondare le conoscenze e le aspettative della popolazione sulla farmacogenomica, il team della Queen Mary University ha condotto un’indagine su un campione rappresentativo di adulti del Regno Unito, in collaborazione con il National Centre for Social Research, l’NHS England Network of Excellence for Pharmacogenomics and Medicines Optimisation e Genomics England.
Dai 2.719 questionari raccolti, è emerso che l’89% dei partecipanti sa che la risposta ai farmaci può variare tra le persone, il 52% è consapevole che il DNA può predire l’efficacia di un farmaco e appena il 48% che può indicare il rischio di effetti collaterali. Inoltre, è emerso che il 59% del campione non ha tratto beneficio o ha avuto effetti collaterali da almeno un farmaco assunto in passato. Per cui ben vengano i test farmacogenomici se possono offrire terapie mirate e più efficaci. La maggior parte ritiene che il Ssn dovrebbe offrire questi test.
Sigu: farmacogenomica, alleata della salute dei pazienti e della tenuta del Ssn
Paolo Gasparini, presidente della Società italiana di genetica umana (Sigu), docente all’Università di Trieste e direttore del Dipartimento dei servizi e di diagnostica avanzata all’Irccs materno infantile Burlo Garofolo, conferma l’importanza della farmacogenomica nella pratica clinica.
«Ci sono alcune situazioni in particolare in cui è non solo corretto, ma fortemente raccomandato dalle linee guida, nazionali internazionali, eseguire un test genetico specifico per un farmaco al fine, soprattutto, di evitare gli effetti collaterali e migliorare l’efficacia della terapia personalizzando il dosaggio» spiega, sottolineando che in ambito oncologico l’uso delle informazioni genetiche per personalizzare le terapie è già realtà. Per esempio, la farmacogenomica aiuta a stabilire se un paziente con leucemia possa assumere in sicurezza il farmaco chemioterapico 6-mercaptopurina.
Gasparini fa anche l’esempio di un altro farmaco oncologico, usato in alcuni protocolli chemioterapici: l’irinotecano. E spiega che ricorrere alla genotipizzazione del gene UGT1A1 può essere utile per identificare i pazienti che hanno un rischio maggiore di manifestare effetti collaterali a seguito del trattamento: gravi tossicità gastrointestinali ed ematologiche. «I pazienti con ridotta attività dell’UGT1A1 sono metabolizzatori lenti, rischiano effetti collaterali gravi e necessitano di una dose ridotta. Chi invece ha un metabolismo rapido in genere richiede dosi maggiori».
Anche per determinare la dose ottimale di warfarin, un farmaco anticoagulante, «i test genetici sono utili per identificare i pazienti che lo metabolizzano in maniera rapida, per i quali la dose non è efficace, e chi, invece, troppo lentamente ed è più a rischio di effetti collaterali, ovvero di emorragie, che possono essere anche letali». In questo caso si cercano in particolare varianti associate al gene CYP2C9 del citocromo P-450.
Il ruolo del genetista nella presa in carico dei pazienti
Nonostante le evidenze scientifiche e cliniche, però, l’adozione della farmacogenomica non è ancora capillare. «Non sempre le strutture sono idonee per eseguire i test e spesso mancano organizzazione e consapevolezza. C’è scarsa conoscenza, cioè, tra chi somministra i farmaci delle differenze individuali nella risposta alle terapie farmacologiche». E i genetisti, sottolinea Gasparini, non sempre sono coinvolti nei processi decisionali, «che invece dovrebbero essere il frutto di un lavoro di squadra tra clinico, genetista e farmacologo, che ha a sua volta un ruolo importante. Perché, una volta che il genetista definisce la mutazione e le caratteristiche individuali del paziente, è il farmacologo che, relazionandosi con il clinico, dovrebbe definire il dosaggio migliore».
La Sigu sta lavorando per colmare queste lacune: «Abbiamo prodotto e stiamo producendo diversi documenti sulla farmacogenomica, e stiamo facendo il possibile al fine di far riconoscere sempre più il ruolo dello specialista in genetica medica da parte delle istituzioni: deve essere parte integrante del team multidisciplinare che prende in carico i pazienti per poter garantire un’interpretazione corretta delle informazioni genetiche al fine di poter individuare i migliori percorsi clinici. Inoltre, la farmacogenomica è una delle principali tematiche al centro del nostro convegno nazionale, perché questi test sono strumenti che possono effettivamente avere un impatto positivo sulla salute dei pazienti e sulla sostenibilità del sistema sanitario».