Se per decenni il trattamento del lupus eritematoso sistemico (LES), una rara malattia cronica autoimmune e multifattoriale che si manifesta nelle giovani donne con una prevalenza di 7-15 volte superiore alla popolazione maschile, è rimasto pressoché invariato, negli ultimi anni la ricerca clinica sembra aver ripreso vigore.
Merito, soprattutto, di una maggiore comprensione dei meccanismi patogenetici che regolano la malattia lupica, caratterizzata da un’anomala iperproduzione di autoanticorpi, e da un necessario cambio di paradigma nell’approccio terapeutico che sposta oggi l’orizzonte della cura dal tradizionale one size fits all a strategie su misura del singolo paziente.
«Non c’è un caso di lupus uguale a un altro, pertanto non è più ragionevole continuare a perseguire l’idea di trovare una panacea che vada bene per tutti – chiarisce Lorenzo Dagna, primario di Immunologia, Reumatologia, Allergologia e Malattie Rare dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, in occasione della Giornata mondiale del Lupus che, come ogni anno, si celebra il 10 maggio – Sono convinto che tra qualche anno inizieremo a considerare il lupus non più come un’unica malattia ma come un gruppo di malattie distinte tra loro, così come in immunoreumatologia è già accaduto ad esempio per le miositi, oggi classificate in base all’anticorpo specifico che le caratterizza, guidando così anche le scelte terapeutiche», puntualizza.
E mentre generici immunosoppressori e l’idrossiclorochina, un antimalarico, continueranno a essere il pilastro del trattamento standard per il LES – con un tasso di risposta medio, però, attorno al 50-60% – l’aggiunta di anticorpi monoclonali e terapia cellulare al piano terapeutico, in diverse combinazioni, promette invece un maggiore controllo su sintomi specifici della malattia.
Colpire i linfociti B è la strategia
Dolore articolare, stanchezza, febbricola, perdita di peso, ingrossamento dei linfonodi: sono queste le manifestazioni tipiche e aspecifiche del LES, che può coinvolgere in modo variabile e imprevedibile i vasi sanguigni, il cervello, i polmoni, la pelle, i reni e le articolazioni. Colpa di un sistema immunitario che va in tilt, a partire dai linfociti B che perdono la tolleranza verso i tessuti dell’organismo, producendo così autoanticorpi – tra cui gli anticorpi anti-nucleo (ANA), anti-dsDNA, anti-Sm e antifosfolipidi – che possono scatenare infiammazione locale e progressivi danni a cellule e tessuti.
A essere coinvolti in questa disregolazione immunitaria sono, però, anche altri “attori” candidabili a diventare potenziali target per terapie a bersaglio molecolare, tra cui i linfociti T, alcune molecole che attivano le interazioni e attivazioni immunitarie come il complesso CD40/CD40L e il fattore di crescita BAFF/BLyS, gli interferoni, citochine proinfiammatorie, e altre vie di segnalazione cellulare. Molte delle strategie finora testate dalla ricerca, volte a colpire i linfociti B in modo diretto o indiretto, seppur inizialmente promettenti, si sono dimostrate solo parzialmente efficaci nella popolazione generale di pazienti affetti da LES.
Un grosso ostacolo al successo dei trial clinici è stata proprio l’alta eterogeneità dei campioni studiati. In tempi recenti, però, una migliore selezione dei pazienti e una più accurata definizione dei criteri di risposta al trattamento ha portato invece a risultati più solidi e all’approvazione di nuove terapie biologiche mirate. La prima è stata belimumab, un anticorpo monoclonale che inibisce il BLyS, una citochina essenziale per la sopravvivenza dei linfociti B, disponibile in Europa dal 2011, a cui si è aggiunto anifrolumab, un anticorpo monoclonale umano diretto contro la subunità 1 del recettore dell’interferone di tipo I, nel 2022.
Queste due molecole sono raccomandate per quei casi che non rispondono alle terapie standard. Sempre nel 2022 è stato resa disponibile in Europa voclosporina, un immunosoppressore analogo della ciclosporina ma con maggiore stabilità indicato per il trattamento della nefrite lupica, una delle più gravi complicanze della malattia che porta a insufficienza renale e si verifica nella metà dei pazienti.
La via della terapia cellulare
L’interesse della ricerca è, oggi, spostato su CAR-T (acronimo di Chimeric Antigen Receptor T), una terapia cellulare avanzata che consente di ingegnerizzare i linfociti T prelevati dal paziente, modificandone le capacità immunitarie prima della reinfusione nell’organismo. Seppure ancora in fase sperimentale, questo approccio ha già prodotto risultati incoraggianti nelle malattie autoimmuni tra cui il LES.
La maggior parte dei dati disponibili proviene da piccoli studi in cui sono state utilizzate CAR-T anti-CD19 autologhe, e si stanno esplorando altre modalità e target da colpire. Ad esempio, studi preclinici hanno dimostrato la fattibilità di usare questa tecnologia avanzata non solo per distruggere i linfociti B alterati ma anche per riprogrammare dall’interno la produzione di cellule immunitarie funzionanti tramite le cosiddette CAR-Treg che sfruttano i linfociti T con funzione immunoregolatoria (i Treg, appunto) con l’intento di inibire le cellule eccessivamente reattive contro l’organismo del paziente.
«Senza dubbio la tecnologia CAR-T rappresenta un passo verso la personalizzazione delle cure ma le metodiche oggi a disposizione non ci consentono ancora un loro impiego su larga scala per via dei costi elevati di produzione delle terapie, ospedalizzazione e gestione del paziente», puntualizza Dagna che con il suo gruppo di ricerca è ai blocchi di partenza con varie sperimentazioni cliniche che indagheranno modalità sempre più innovative di andare a correggere l’eccesso di risposta immunitaria che caratterizza questa e altre malattie autoimmuni.
«Sono in corso anche alcuni studi che utilizzano cellule da donatore (CAR-T eterologhe o off-the-shelf) che potrebbero consentire di preparare delle “truppe” di cellule pronte da essere infuse in qualsiasi paziente, quindi contenendo i costi. L’efficacia di questa strategia, però, è ancora tutta da dimostrare».
Il lupus in Italia
A fronte di qualche novità sul piano scientifico, la sfida nel settore si gioca anche sul piano diagnostico. Ancora oggi il lupus è una malattia difficile da diagnosticare non solo perché è poco conosciuta data la sua bassa incidenza – si stimano 20-50 persone ogni 100.000 abitanti nel nostro Paese – e mancano biomarcatori specifici e competenze tra gli specialisti di riferimento, ma anche perché raramente si presenta con sintomi “da manuale” ed evidenti.
«Inoltre è estremamente variabile nel tempo, e può presentarsi già all’esordio con manifestazioni già gravi», conclude Dagna. La conseguenza è che molti pazienti arrivano tardi alle cure che, benché non risolutive in modo definitivo, possono quantomeno aiutare a tenere a bada la malattia e migliorare la qualità della vita quando somministrate tempestivamente.
«In clinica, però, ci capita di vedere un po’ di tutto, sia persone che stanno male da anni senza avere una diagnosi, sia persone che hanno ricevuto una erronea diagnosi magari sulla base di sole indagini di laboratorio o strumentali, senza considerare la necessaria integrazione di queste informazioni con il pilastro fondamentale per la diagnosi, ovvero la clinica».
Foto: IRCCS Ospedale San Raffaele