Cervelli che ritornano: da Washington D.C. a Milano per studiare il sistema immunitario

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Maria Mezzetti

Perché ne stiamo parlando
In controtendenza con il filone secondo cui fare ricerca scientifica in Italia è difficile, Mirela Kuka è rientrata dagli Stati Uniti. Il vero problema, a parer suo, è la scarsa organizzazione dell’erogazione dei fondi destinati alla ricerca.

Ha lasciato gli Stati Uniti per tornare in Italia, «perché Milano è una città dinamica che offre molto». Mirela Kuka è ora Project Leader presso la Divisione di Immunologia, Trapianti e Malattie Infettive presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele e Professoressa Associata di Patologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, la quarta al mondo per qualità della ricerca dopo Harvard, Stanford e l’MIT di Boston.

Di cosa si occupa?

«Studio il sistema immunitario e le interazioni tra le sue cellule in diversi contesti patologici. Una caratteristica fondamentale del sistema immunitario è quella che le cellule si influenzano tra di loro, con effetti negativi o positivi sulla risposta immunitaria, a seconda del contesto. Studio i meccanismi con cui alcuni virus inibiscono le risposte anticorpali e l’attivazione dei linfociti.

Abbiamo scoperto che, per esempio, in alcune infezioni virali c’è una popolazione di cellule immunitarie, i monociti, che interagiscono con i linfociti B sopprimendo le loro risposte. Tale attività soppressiva non era mai stata osservata prima per i linfociti B. Sto proseguendo questa linea di ricerca con il mio team e vorremmo anche estenderla ad altri tipi di infezioni o tumori.

Questi ultimi per certi aspetti assomigliano ad alcuni tipi di infezioni. Inducono delle disfunzioni nelle risposte immunitarie che prevengono il controllo del tumore. L’immunoterapia è fondamentale, ma purtroppo non funziona sempre ed è importante capire i meccanismi molecolari per cui a volte fallisce».

Perché è voluta rientrare?

«Si è trattato di combinare una scelta personale di vita con il desiderio di non sacrificare la mia carriera di ricercatrice. In Italia abbiamo delle vere eccellenze. Il San Raffaele era già noto a livello internazionale all’epoca e il laboratorio dove ho deciso di lavorare quando sono rientrata non aveva nulla da invidiare a quello dove avevo lavorato a Washington D.C. Alla base di scelte che si rivelano vincenti ci vuole certo determinazione ma anche un po’ di fortuna».

Che differenze riscontra tra gli USA e l’Italia?

«Ho vissuto e lavorato a Washington D.C. per tre anni e mezzo, presso un centro di ricerca dei National Institutes of Health. Quest’ultimo è un istituto federale che distribuisce i fondi governativi alle altre università o enti di ricerca. Sono finanziamenti regolari. La differenza quindi è che là c’è una puntualità nell’erogazione dei fondi, con date regolari, che qui non c’è».

Qual è il problema della ricerca oggi in Italia?

«Soprattutto il fatto che non si sa mai quando è disponibile il prossimo finanziamento e quindi è difficile organizzarsi sul lungo termine. I fondi servono non solo per finanziare gli esperimenti, ma anche per retribuire le persone che lavorano. È una responsabilità nei confronti dei nostri team. Se ci fosse una pianificazione chiara si saprebbe per tempo la disponibilità di un finanziamento e quindi la preparazione della domanda avverrebbe con maggior cura.

Questo aiuterebbe anche a sfoltire la quantità di domande che il Ministero riceve. Perché poi succede che, quando esce il bando, visto che non si sa se passeranno uno, due o tre anni prima per quello successivo, tutti fanno domanda, anche chi magari non ha un progetto di ricerca ancora maturo».

Cervelli in fuga e cervelli sulla via del ritorno

Secondo l’Istat, tra il 2013 e il 2022, 132mila laureati hanno lasciato l’Italia per mete dove remunerazione e qualità della vita erano più promettenti. Fra queste spiccano, in Europa, Regno Unito (28 mila espatri nel decennio), Germania (18mila), Svizzera (12mila) e Francia (11mila). Fra le destinazioni extra Europa prevalgono gli Stati Uniti (7mila), prediletti maggiormente dal Nord Italia (uno su due), mentre un giovane laureato su quattro emigra dal Sud Italia.

Di questi 132mila laureati espatriati, il 22% erano detentori di una laurea triennale, il 72% di una magistrale (o equivalente), il 6% di un master o dottorato. Di questi 132mila laureati, solo 45mila sono rientrati in Italia.

Keypoints

  • Il problema è la scarsa organizzazione dell’erogazione dei fondi destinati alla ricerca
  • La differenza è che negli USA c’è una puntualità nell’erogazione dei fondi che in Italia non c’è
  • Tra il 2013 e il 2022, 132mila laureati hanno lasciato l’Italia
  • Di questi solo 45mila sono rientrati

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