Prende il via la Piattaforma Italiana di Nanomedicina, che punta a creare una rete nazionale che favorisca lo sviluppo di nuove terapie e tecnologie diagnostiche avanzate. Nata su impulso della European Technology Platform for Nanomedicine e coordinata ad interim da Giovanni Tosi (professore ordinario di Tecnologia e Legislazione Farmaceutiche dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia), la Piattaforma riunisce atenei, istituti come il Cnr, Ircss, l’Istituto Mario Negri, il Politecnico di Torino e aziende biotech, e ha il supporto di Farmindustria, con cui vuole rafforzare il ruolo dell’Italia nel panorama europeo della nanomedicina.
Con il prof. Tosi abbiamo approfondito il ruolo crescente della nanomedicina, le sfide della ricerca italiana e gli obiettivi concreti della nuova piattaforma.
Professore, perché la nanomedicina sta assumendo un ruolo sempre più rilevante?
«La nanomedicina permette di risolvere problemi specifici legati sia al farmaco che alla patologia. Un esempio classico è il cancro: esistono farmaci molto potenti ma con effetti collaterali troppo gravi. Oppure ci sono patologie che colpiscono organi difficilmente raggiungibili, come il cervello, protetto dalla barriera ematoencefalica che limita l’accesso dei farmaci.
Le nanotecnologie permettono di produrre sistemi di drug delivery avanzati che riescono a superare questi ostacoli, portando il farmaco esattamente dove serve e riducendo gli effetti collaterali. Un esempio noto è quello dei vaccini a mRNA, come Pfizer e Moderna, che hanno usato nanoparticelle lipidiche non virali per trasportare il materiale all’interno delle cellule».
E cosa accade invece sul fronte diagnostico?
«La nanomedicina punta a migliorare la diagnosi precoce e di precisione. Prima riusciamo a diagnosticare una malattia, come un tumore o una patologia rara, più alte sono le probabilità di intervenire con successo. Le nanotecnologie ci permettono di superare barriere che la diagnostica tradizionale non riesce a oltrepassare, rendendo ad esempio più nitidi i contorni di un tumore nelle immagini o migliorando la rilevazione di biomarcatori a livello cellulare. Così possiamo identificare la malattia prima e in maniera più accurata».
Su quali ambiti sta puntando maggiormente la ricerca italiana in questo momento?
«La ricerca italiana nel campo della nanomedicina e delle tecnologie farmaceutiche applicate alla medicina ha radici profonde ed è attiva da moltissimi anni. Dopo il Covid, la ricerca si è spostata sempre più verso un approccio applicativo e industriale. Oggi la direzione principale è quella della veicolazione di materiali genetici – come l’mRNA – e di farmaci biologici e biotecnologici che necessitano di sistemi di precisione, di nanomedicina disegnate ad hoc per superare ostacoli come la stabilità o la difficoltà di raggiungere il target terapeutico. In quest’ottica, la ricerca italiana si sta concentrando proprio sulla creazione di sistemi di delivery più efficaci e sicuri».
Ci sono progetti o iniziative italiane che rappresentano motori importanti?
«Sì, assolutamente. Un esempio molto rilevante è il “Centro Nazionale per la Terapia Genica e Farmaci a mRNA”, un progetto finanziato dal Pnrr che rappresenta uno dei più grandi motori della ricerca applicata in Italia. È un’iniziativa importante che garantisce alla nanomedicina un ruolo preminente e che è anche confermato recentemente da Farmindustria con l’identificazione di questo settore tra le priorità strategiche della ricerca farmaceutica nazionale. A livello globale, inoltre, le previsioni di mercato indicano una forte crescita di questo ambito.
Questo spiega perché le aziende stiano investendo sempre di più e, di conseguenza, la ricerca accademica italiana si stia allineando a questo trend, pur mantenendo una certa libertà esplorativa. Nel nostro campo specifico, quello della nanomedicina, oggi la sfida principale è proprio quella di colmare il gap tra la ricerca accademica e l’applicazione industriale, trasformando le scoperte in soluzioni concrete e trasferibili».
Per far questo, quali saranno le vostre strategie principali? Me ne può indicare tre o quattro, come un piccolo vademecum?
«Le strategie chiave sono innanzitutto creare una rete di interessi comuni tra i diversi attori della piattaforma, identificando i progetti più maturi per il trasferimento tecnologico e quelli più di frontiera da sostenere con percorsi mirati. In secondo luogo, vogliamo facilitare l’interazione tra accademia e industria, promuovendo la partecipazione a bandi europei e costruendo una mappa nazionale delle competenze che sia visibile e accessibile anche all’estero, così da generare contatti e collaborazioni.
Infine, puntiamo molto sulla formazione: vogliamo trasferire queste conoscenze ai dottorandi e ai giovani ricercatori, formando figure capaci di comprendere e completare l’intero percorso di sviluppo della nanomedicina, dalla ricerca di base all’applicazione concreta».
Ci sono già progetti specifici da cui la piattaforma italiana di nanomedicina sta partendo concretamente?
«Per il momento stiamo ancora lavorando al raggruppamento dei partner per competenze e interessi. Abbiamo creato dei macro-ambiti: chi lavora più sulla parte terapeutica, chi sulla medicina rigenerativa, sulla terapia genica, sui dispositivi o sulla diagnostica. Queste aree sono il punto di partenza per creare progetti specifici all’interno dei vari working group. Se proprio dovessi indicare un “filo conduttore” attuale, direi che la terapia genica, specie nelle malattie rare e genetiche, è uno dei settori più attivi e promettenti»
E quando i progetti nasceranno, come svilupperete il dialogo tra accademia e industria e quali ostacoli vede nel trasferimento tecnologico?
«Il dialogo tra accademia e industria è centrale. Può avvenire in entrambe le direzioni: a volte è l’università a proporre un’idea progettuale e cerca il partner industriale; altre volte è l’industria a indicare un’esigenza specifica per la sua pipeline e a coinvolgere i ricercatori con le competenze adatte. La difficoltà principale in Italia riguarda spesso la gestione della proprietà intellettuale: alcune aziende sono restie a condividere tecnologie o a entrare in dinamiche di IP comune.
Per affrontare questo tema abbiamo creato un working group dedicato al regolatorio e alla proprietà intellettuale, convinti della necessità di avere un forte supporto da parte di Farmindustria. L’obiettivo è trovare un equilibrio che permetta alle aziende di valorizzare il proprio portafoglio prodotti, ma allo stesso tempo favorire una maggiore apertura e collaborazione, come già accade in altri Paesi europei».
Lei è presidente ad interim della Piattaforma Italiana per la Nanomedicina. Perché ha scelto questa formula “interim”?
«Ho creato questa piattaforma insieme ad alcuni colleghi proprio perché la nanomedicina non è solo tecnologia farmaceutica, che è il mio ambito specifico, ma è un settore di filiera complesso che coinvolge tante competenze diverse: dal chimico al fisico, dal matematico al clinico fino all’industria. Nessuno da solo basta, servono tutti gli attori della filiera per fare vera nanomedicina. È fondamentale che ogni tre anni, almeno, la direzione cambi per portare visioni e idee nuove. La contaminazione di approcci diversi è sempre positiva, mentre se rimane una sola linea di pensiero rischia di diventare limitante.
Ho preso ispirazione dal mio ruolo di segretario della Piattaforma Europea della Nanomedicina, dove ogni Stato membro ha la propria piattaforma nazionale – ci sono quella francese, inglese, spagnola e anche quella italiana, appunto. A livello europeo, cambiamo regolarmente il board esecutivo ogni due anni proprio per garantire un flusso costante di nuovi input e di nuove idee».