Presentati i dati relativi all’Italia dell’Impact survey, un vasto e importante database ricco di dati sull’impatto dell’osteogenesi imperfetta (OI) sulla vita sia dei pazienti sia di chi sta loro accanto. Lo scopo è la diffusione di una maggiore conoscenza di questa malattia genetica rara che colpisce una nascita ogni 15-230mila. Si calcola che in Italia siano dalle 3 alle 4 mila le persone affette da questo malanno.
Si è parlato anche del progetto Saturn, iniziativa dell’Istituto Rizzoli di Bologna, intento a raccogliere dati ed elementi di vita reale dei pazienti al fine di meglio capirne le esigenze, offrendo un’assistenza più mirata e migliore. Il progetto si svolge a livello europeo e, attualmente, in Italia sta svolgendo la fase pilota.
Le due iniziative sono state presentate in occasione di un evento, durante il quale i principali esperti clinici dell’OI in Italia, ERN BOND (European Reference Network on Rare Bone Diseases, rete di riferimento europea sulle malattie rare scheletriche), l’Associazione Italiana Osteogenesi Imperfetta (As.It.O.I.) e UNIAMO – Federazione Italiana Malattie Rare, hanno chiesto maggiore consapevolezza di questa malattia.
Presenti Franco Antoniazzi, Professore associato di Pediatria presso l’Università di Verona, Centro per la diagnosi e cura delle malattie rare scheletriche dell’età evolutiva della Regione Veneto; Davide Gatti, Professore Associato di Reumatologia presso l’Università di Verona; Mauro Celli, Responsabile Centro Malattie Rare e Displasie Scheletriche, AOU Policlinico Umberto I; Luca Sangiorgi, Direttore Struttura di Malattie Rare Scheletriche dell’Istituto Ortopedico Rizzoli e Coordinatore della Rete di Eccellenza di ERN BOND; Annalisa Scopinaro, Presidente UNIAMO – Federazione Italiana Malattie Rare e Leonardo Panzeri, Presidente Associazione Italiana Osteogenesi Imperfetta.
OI, non solo fratture
È nota come la ‘malattia delle ossa fragili’ o ‘malattia delle ossa di vetro’. Ciò che si sa è che è antica come il mondo: è stata infatti riconosciuta in una mummia egizia del 1000 a.C. Sin dal XVII secolo sono inoltre apparsi studi di casi di ossa fragili e perdita dell’udito.
L’OI deriva da mutazioni nei geni che influenzano la produzione, la struttura o l’elaborazione del collagene di tipo I, una proteina strutturale chiave che si trova nelle ossa, nella pelle e in altri tessuti connettivi. Ma in realtà colpisce l’organismo nel suo complesso, con una serie di sintomi e manifestazioni cliniche diversi. Certamente la fragilità ossea è uno fra gli elementi che la contraddistingue, dettata dalla facilità con cui ci si procura una frattura. Ma non solo.
«Per quanto riguarda le caratteristiche cliniche», spiega Celli, «si è abituati a intercettare l’osteogenesi imperfetta con le fratture che si hanno fin dai primi giorni di vita, fin dai primi anni di vita e per poi avere un periodo di calma e poi rappresentarsi in età adulta. Ma l’OI non è solo fratture. Ci sono dei soggetti con patologie cardiache, oculari, otorino, quindi con ipoacusie, problematiche a carico della retina, sclera in blu e insufficienza cardiaca. Non ci si può limitare solo alle fratture».
L’OI, la cui gravità varia passando da sintomi lievi in alcuni pazienti a vera e propria disabilità fisica in altri, è stata classificata in quattro tipi che rappresentano l’85-90% dei casi. Più recentemente, sono state identificate molte altre varianti genetiche. In comune hanno tutte l’alto rischio di fratture.
In particolare:
- Tipo I: OI non deformante, ma con alta propensione alle fratture, possibile perdita dell’udito, sclere blu;
- Tipo IV: OI con gravità variabile tra tipo I e III, con sclere degli occhi normali;
- Tipo V: simile al tipo IV per aspetto e sintomi, con formazione di callo ipertrofico;
- Tipo III: OI progressivamente deformante, ossa facilmente fratturabili, bassa statura, possibili problemi respiratori, sclere blu, probabile perdita dell’udito;
- Tipo II: OI letale perinatale, complicazioni potenzialmente letali, fratture, basso peso alla nascita, arti anormalmente corti, alta probabilità di morire per insufficienza respiratoria.
Quanto conta una diagnosi precoce?
«Nel bambino c’è una sequenza di fratture molto impressionante», precisa Antoniazzi, «e già dalla nascita ne presenta molte, con delle conseguenze perché ogni volta si interrompe il processo delle acquisizioni motorie del bambino, fondamentale nel primo anno. Una diagnosi e un intervento terapeutico precoce sono importanti per evitare che il bambino perda queste acquisizioni, o per farle riacquistare velocemente (…) Il fatto che ci siano così tante forme vuol dire che ci sono più geni in causa. Tale variabilità genetica condiziona l’approccio terapeutico.
Sappiamo che alcune forme rispondono meno a dei farmaci. Possiamo anche avere delle risposte particolari con altri approcci, quindi bisogna avere una diagnosi veloce, precisa che ci condiziona anche nell’evoluzione. Ciò è importante anche perché nel momento in cui il bambino comincia a fatturarsi, si crea una grossa ansia nella famiglia: la prima cosa che chiedono i genitori è come sarà il mio bambino, come vivrà, sarà in grado di avere autonomia a camminare».
Essendo però una malattia rara, non è facile ottenere una diagnosi tempestiva e attendibile. Il test genetico per l’OI non viene effettuato di routine nei neonati e, senza un’anamnesi familiare, la diagnosi viene effettuata sulla base di caratteristiche cliniche, come le fratture. Una diagnosi che può essere confermata in un secondo momento con un test genetico, importante anche per la consulenza genetica ai genitori prossimi a future gravidanze.
«Molto spesso», prosegue Antoniazzi «abbiamo delle sorprese positive. Ci sono bambini che sembrava avessero delle forme molto gravi, e che poi con le terapie precoci sono andati molto bene. Abbiamo fatto degli studi nel bambino molto piccolo che ha cominciato i trattamenti già a un mese di vita, e abbiamo notato l’impatto positivo».
Impact survey: perché è importante
Fratture, dolore cronico, astenia, qualità della vita. Tutto ciò ha un forte impatto sulla persona malata e sulla famiglia. Ogni frattura ha un impatto sulla vita delle persone con OI, in quanto può causare una significativa disabilità e complicanze a lungo termine che incidono pesantemente sulla qualità della vita. Gli studi finora svolti su quest’ultimo aspetto sono stati pochi. Finora.
L’impact survey colma questo grosso gap, fornendo elementi importanti per capire cosa manca. Si tratta della più vasta ed esauriente raccolta di dati basata su un progetto di ricerca internazionale che ha coinvolto la comunità OI globale, analizzando il percorso di vita delle persone colpite e dei loro famigliari.
Lo studio ha raggruppato 2.208 risposte in 66 paesi. In Italia, ha raccolto 150 risposte, tra cui 81 adulti con OI (5 dei quali erano anche genitori o caregiver con OI), 41 genitori o caregiver senza OI, 3 adolescenti e 25 familiari o persone vicine a individui con OI. L’età media dei partecipanti adulti con OI era di 42 anni, quella dei genitori o caregiver senza OI di 45, e quella degli adolescenti di 13 anni. Le donne, in generale, hanno partecipato più attivamente e sono, quindi, più rappresentate degli uomini, sia tra gli adulti che tra i giovani.
Un’alta percentuale di partecipanti ha dichiarato di conoscere il proprio tipo di OI; la maggior parte ha riportato una forma moderata (60% tra gli adulti, 70% tra gli adolescenti rappresentati dai caregiver e 61% tra i bambini rappresentati dai caregiver).
Fra i risultati più interessanti, emerge quello secondo cui, aldilà dell’età del paziente, fra i sintomi che più condizionano la qualità della vita, al primo posto vi è il dolore, seguito da scoliosi, astenia (affaticamento) e problemi dentali. Sebbene i bambini siano notoriamente più colpiti dalle fratture rispetto agli adulti, lo studio rivela che circa un quinto di questi ultimi (18%) ha riportato una frattura negli ultimi 12 mesi.
Elementi, questi, che impediscono o quantomeno rendono molto difficile la possibilità di lavorare ambendo a una carriera, di svolgere una vita indipendente e, naturalmente, di potersi godere il tempo libero.
«La frattura ha un impatto solamente a livello pediatrico, ma sempre di meno nell’adolescenza o nell’adulto», spiega Panzeri. «Il dolore e l’astenia, invece molto di più. La frattura la conosciamo, sappiamo benissimo tutto il percorso che dobbiamo fare, il dolore che andremo a sentire. Ma il dolore cronico e la stanchezza no. Una persona con dolore ha difficoltà a terminare la propria giornata lavorativa. Anche la fatica è fondamentale perché, terminata la giornata lavorativa, si va a casa, ma non si ha più la capacità di avere l’autonomia, di gestirsi una vita autonoma con facilità”.
Lo studio evidenzia la grande preoccupazione che le persone affette da OI hanno pensando al futuro, con la progressiva perdita di autonomia e mobilità. Senza contare che l’accesso a prestazioni sanitarie e servizi sono, per la maggior parte, a carico del paziente e della sua famiglia, con pochi fondi pubblici. I quali debbono essere mirati. «Occorre che le persone affette da OI siedano a tutti i tavoli di lavoro, perché solo così si possono ascoltare e capire le reali esigenze», precisa Scopinaro.