Parkinson, Pisani: «Promettenti i nuovi trapianti di staminali, ma servono anni per valutarli davvero»

Parkinson, Pisani: «Promettenti i nuovi trapianti di staminali ma servono anni per valutarli davvero»

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Michela Moretti

Perché ne stiamo parlando
Due studi clinici internazionali aprono nuove prospettive, ma restano questioni importanti tra cui la durata dei benefici e la comprensione dei meccanismi patologici.

Due importanti studi clinici di fase iniziale, uno giapponese e uno nordamericano, pubblicati su Nature, hanno recentemente mostrato risultati incoraggianti per il trattamento dei sintomi della malattia di Parkinson in stato avanzato utilizzando neuroni dopaminergici derivati da cellule staminali.

Lo studio giapponese, condotto presso l’Università di Kyoto, ha utilizzato cellule staminali pluripotenti indotte (iPS), mentre lo studio nordamericano, guidato dal Memorial Sloan Kettering Cancer Center, ha impiegato cellule staminali embrionali umane (hES).

«È uno dei risultati di una ricerca che procede da decenni», commenta Antonio Pisani, professore di Neurologia all’Università di Pavia e Direttore dell’Unità di Neurologia presso la Fondazione Mondino IRCCS. «Negli anni ’90 furono condotti i primi tentativi con trapianti cellulari ma senza ottenere risultati soddisfacenti a causa delle diverse tipologie di innesti utilizzati. L’avanzamento tecnologico ha permesso alle aziende di compiere progressi considerevoli, in particolare grazie all’utilizzo di cellule staminali embrionali criopreservate».

Le valutazioni di Pisani: traguardi importanti ma il cammino resta lungo

Nel trial giapponese, il gruppo ad alta dose ha mostrato un miglioramento di 9,5 punti (20,4%) nei punteggi della scala MDS-UPDRS Parte III (serve per valutare in modo completo la gravità del quadro clinico della malattia di Parkinson). Ancora più incoraggianti sono stati i risultati dello studio americano, dove il gruppo ad alta dose ha mostrato una riduzione media di 23 punti nella scala MDS-UPDRS Parte III e un guadagno di 2,7 ore di tempo «ON» (funzionamento normale) al giorno.

Su questi risultati commenta Pisani: «Appaiono promettenti. Tuttavia il periodo di osservazione di soli 18 mesi è limitato se confrontato con la lenta progressione tipica della patologia. Sarà fondamentale osservare l’evoluzione clinica di questi pazienti nei prossimi anni, fino ad almeno un decennio dopo l’impianto».

Il prof. Pisani ricorda che gli studi post-mortem condotti sui pazienti sottoposti a trapianti negli anni ’90 avevano evidenziato che anche le cellule impiantate tendevano a degenerare nel tempo, manifestando segni della malattia.

Sicurezza e limiti: il difficile equilibrio tra innovazione e realismo clinico

Lo studio giapponese ha coinvolto sette pazienti divisi in due coorti (dose bassa e alta) mentre lo studio americano ha trattato 12 pazienti con un protocollo simile. Entrambi gli studi hanno riportato buoni profili di sicurezza, senza eventi avversi gravi correlati alle cellule trapiantate. In entrambi i casi, i neuroni dopaminergici derivati da queste cellule sono stati trapiantati nel putamen dei pazienti, una regione cerebrale critica nel controllo del movimento, con l’obiettivo di ripristinare la produzione di dopamina, il neurotrasmettitore carente nei pazienti con malattia di Parkinson.

«Siamo indubbiamente di fronte a un’innovazione rilevante, con la riserva che richiede la disponibilità dei pazienti a sottoporsi all’impianto. I partecipanti agli studi erano evidentemente individui altamente motivati, ma ipotizzare un’adozione su larga scala di questa procedura appare, almeno per il momento, poco realistico», ammette Pisani.

Il neurologo individua, oltre alla brevità del follow-up e alla ridotta numerosità del campione, anche un altro limite importante: si tratta essenzialmente di approcci sintomatici. «La problematica fondamentale persiste: non disponiamo ancora di strumenti per arrestare il processo patologico sottostante».

La complessità del Parkinson: perché non basta sostituire i neuroni dopaminergici

La malattia di Parkinson presenta componenti genetiche, epigenetiche ancora non completamente caratterizzate, predisposizioni individuali e fattori ambientali che, nel loro insieme, costituiscono un quadro di estrema complessità che rende insufficiente l’approccio mirato a un singolo target molecolare.

«Le strategie finora implementate non hanno dimostrato efficacia nel contrastare il processo neurodegenerativo, e ciò rispecchia la complessità intrinseca della patologia, che permane nonostante i progressi tecnologici», ricorda Pisani. «Siamo dunque ancora lontani dall’obiettivo, considerando che tutti i trial clinici focalizzati sulla sinucleina – una proteina chiave che si accumula in forma tossica nei neuroni dei pazienti con malattia di Parkinson e che si ritiene coinvolta nella progressione della malattia – hanno essenzialmente fallito nel dimostrarne l’efficacia come bersaglio terapeutico».

Il ruolo dell’alfa-sinucleina non è ancora pienamente compreso, e le prospettive scientifiche risultano divergenti: alcune équipe di ricerca e aziende identificano nella sinucleina il target terapeutico primario mentre altri gruppi di ricercatori ne ridimensionano l’importanza adottando una visione più integrata della patologia.

Le prossime tappe della ricerca: follow-up più lunghi e ricerca di nuove strategie molecolari

Sia lo studio nordamericano che quello giapponese prevedono un follow-up a lungo termine e la pianificazione di studi di fase successiva con gruppi di pazienti più ampi. Lo studio americano ha già ricevuto l’approvazione per procedere direttamente a un trial di fase 3 che coinvolgerà circa 100 pazienti, con un gruppo di controllo placebo.

Nel frattempo, la ricerca continua su molteplici fronti, con Pisani stesso impegnato in studi su meccanismi infiammatori e mutazioni genetiche, nella speranza che una migliore comprensione dei meccanismi molecolari possa un giorno portare a interventi più mirati e potenzialmente curativi.

«La comprensione approfondita dei meccanismi patogenetici costituisce il presupposto per lo sviluppo di molecole potenzialmente efficaci. In assenza di una conoscenza esaustiva di tali meccanismi, continuiamo a confrontarci con un fenomeno che sfugge alla nostra piena comprensione».

Keypoints

  • Due studi clinici hanno mostrato che i neuroni dopaminergici derivati da cellule staminali migliorano i sintomi del Parkinson
  • Antonio Pisani giudica i risultati promettenti, ma sottolinea che i tempi di osservazione sono ancora troppo brevi
  • I trapianti sono sicuri, ma attualmente rappresentano solo un trattamento sintomatico e non curativo
  • La complessità genetica, epigenetica e ambientale della malattia rende inefficace puntare su un singolo target
  • Gli approcci contro l’alfa-sinucleina non hanno finora fermato la progressione della patologia
  • Per Pisani, una piena comprensione dei meccanismi molecolari è essenziale per sviluppare terapie realmente efficaci

 

 

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