5 spoke per l’innovazione tecnologica nel drug development, 5 per la ricerca rispettivamente di malattie genetiche, tumori, malattie cardiovascolari e metaboliche, malattie neurodegenerative, e malattie autoimmuni, tutti coordinati da un unico hub, la Fondazione del Centro Nazionale di Ricerca per lo Sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA. E poi molti progetti di ricerca, una grande squadra di dottorandi e giovani ricercatori, strutture di ricerca “open access”, academy dove si condivide la conoscenza. Il tutto per mettere a sistema la ricerca di spicco italiana dedita alla scoperta e sviluppo di terapie innovative.
Sul Centro Nazionale per lo Sviluppo delle terapie geniche e a RNA si è puntato molto, per l’esattezza 320 milioni di Euro (dal PNNR). Questa scommessa può contare su una classe di scienziati che hanno capito che la ricerca italiana può veramente generare trasferimento tecnologico, come sostiene Rosario Rizzuto, Direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova e Presidente del Centro.
Che cosa le fa pensare che i tempi stiano cambiando nella ricerca italiana e che ora possa parlare di trasferimento tecnologico?
Io sono stato Rettore dell’Università di Padova fino a due anni fa; ho vissuto il tema del trasferimento tecnologico in cui, se togliamo l’area dell’ingegneria che ha un collegamento molto spesso radicato nel tessuto imprenditoriale, tutte le altre aree erano più indietro. Non c’era da una parte l’esperienza delle università, ma forse neanche la motivazione, la spinta da parte dei ricercatori a lanciarsi in una nuova prospettiva. Io credo che i tempi siano cambiati: oggi non è più così, abbiamo ricercatori, soprattutto i giovani ricercatori che guardano ai colleghi che sono in Inghilterra, negli Stati Uniti, e che sanno che la ricerca non è solo la scoperta emozionante di meccanismi nuovi, ma in realtà è anche la possibilità di sfruttarli a favore della salute delle persone, per creare terapie che per loro è anche un riconoscimento sociale. È veramente una bella sfida che secondo me oggi c’è voglia di raccogliere.
Con quali strategie il Centro guiderà questo percorso?
Innanzitutto partiamo dalla formazione e dalla condivisione della conoscenza: abbiamo attivato posti di dottorato specifici per sviluppare le competenze necessarie alla sviluppo di queste nuove terapie; abbiamo inoltre creato un dottorato di ricerca nazionale unitario che ha come sede amministrativa l’Università di Napoli ma che in realtà vede la formazione di dottorandi su questo tema, gene therapy e terapie a RNA, su 15 sedi, dove hanno diversi momenti di incontro e condivisione. L’Università di Napoli ci ha messo a disposizione, nella nuova bellissima sede di Scampia, una academy, un percorso di formazione e aggiornamento su queste tecnologie per chi ha già completato gli studi, da persone che lavorano nelle aziende, a laureati che vogliono rafforzarsi in un particolare ambito.
Rispetto alle strutture ricerca, come vi state muovendo?
Per prima cosa stiamo mirando a rafforzare il consorzio di tre enti che già lavorano su gene therapy: l’Ospedale Bambin Gesù, il TIGET, il Centro di terapia genica di Telethon e la Fondazione Tettamanti. Costruiremo poi una RNA producing platform, per portare la ricerca che ha sviluppato un potenziale farmaco a predisporre la preparazione di RNA che sia di qualità. Non ci proponiamo di fare una fabbrica: sarà un luogo nel quale i partner del Centro, ma anche biotech che hanno necessità di uno spazio con queste caratteristiche, possano generare prototipi. E poi abbiamo i dieci spoke.
Come possiamo immaginare l’attività di questi spoke, e come sono legati tra loro?
Cinque spoke si occupano orizzontalmente di sviluppo di tecnologie. Ogni spoke costruirà e si doterà di strumentazione evoluta per riuscire da una parte a portare avanti la ricerca, ma anche di rendere disponibile la tecnologia a tutta la rete dell’intero Centro. Le faccio un esempio, lo spoke di Padova sta acquistando un sistema per lo screening di tante molecole diverse usando organoidi. E questo permette ai gruppi che sono a Padova che fanno parte dello spoke, ma anche all’intero centro di usufruirne.
Lo stesso meccanismo si avrà per le tecnologie legate all’RNA: alcuni di questi lavoreranno sulla chimica dell’RNA, altri sugli strumenti di veicolazione all’organo di interesse, sulla bioinformatica. È l’incrocio tra chi ha competenza nella parte di tecnologia farmaceutica, che chiamiamo delivery, e chi invece ha, ad esempio, RNA specifici che vuole provare a veicolare prima in un organoide, poi nei modelli animali, trasformandoli in candidati per lo sviluppo come nuovo farmaco. Quindi queste tecnologie verrebbero messe a disposizione di tutti gli altri spoke, fornendo il substrato metodologico su cui i cinque spoke che si occupano di sviluppare terapie per malattie genetiche, tumori, malattie cardiovascolari e metaboliche, malattie neurodegenerative, e autoimmuni, possono basarsi.
Il Centro auspica la nascita di biotech; come la supporterà?
Noi abbiamo sviluppato un’area di trasferimento tecnologico all’interno del Centro che avrà il compito di cercare finanziatori esterni e accompagnare le biotech alla ricerca di finanziamenti e alla costituzione dell’azienda stessa. L’idea ovviamente non è di sostituirci agli enti da cui originano queste nuove biotech, le università e gli istituti di ricerca; possiamo però offrire un’esperienza su un tema specifico che aiuti i ricercatori a trovare i finanziatori più opportuni. L’obiettivo è di essere anche in questo un acceleratore.
E gli investitori arriveranno?
Sono convinto di sì. Il successo della ricerca italiana ha dimostrato di poter veramente generare valore; e quando una cosa funziona, il successo chiama successo. Io non sono economista, ma credo che non ci siano dubbi che dobbiamo avere un’economia basata sulla conoscenza, altrimenti perdiamo la competizione internazionale.