L’ambiente può influenzare lo sviluppo del cervello. Nel bene e nel male. Per esempio, esperienze traumatiche vissute durante l’infanzia possono alterare lo sviluppo neurale. «Alterazioni che possono predisporre allo sviluppo di disturbi del comportamento in età adulta: disturbo ossessivo-compulsivo, paranoide, narcisistico, ecc.»

Laura Cancedda è neurobiologa del neurosviluppo, all’IIT di Genova coordina l’Unità Brain Development and Disease e con il suo team si interroga in che misura fattori diversi, come l’età in cui si è verificato il trauma, la tipologia, la frequenza, la gravità dello stress vissuto, ma anche la genetica, possono alterare lo sviluppo e portare a problematiche psichiatriche.
Ora, grazie al finanziamento di circa 2 milioni di euro del Fondo Italiano per la Scienza (Fis) svilupperà dei modelli preclinici per comprendere le alterazioni comportamentali e neurobiologiche derivanti da esperienze particolarmente dolorose. «Quelle – ci dice – che ci fanno sentire in serio pericolo: calamità naturali legate al cambiamento climatico; guerre; l’allontanamento forzato dai genitori per le deportazioni dei migranti».
Laura Cancedda, lei di fatto indagherà l’effetto dei traumi infantili sulla salute mentale in età adulta?
«Il nostro obiettivo principale è comprendere come i traumi vissuti durante lo sviluppo possono influenzare il comportamento in età adulta in modelli preclinici. Di fatto, sappiamo che un trauma durante l’infanzia lascia il segno e può portare a vari disturbi del comportamento. Sappiamo anche, però, che non c’è una corrispondenza univoca tra il tipo di trauma di cui una persona fa esperienza e il tipo di disturbo che poi svilupperà».
In altre parole, non tutti coloro che sviluppano un disturbo del comportamento hanno subito lo stesso tipo di trauma?
«Esattamente. E per capire perché è fondamentale sviluppare dei modelli sperimentali che ci consentano di studiare i tratti neuropsichiatrici derivanti dall’esposizione a traumi. In particolare, vogliamo indagare il peso dell’età in cui l’evento traumatico avviene per lo sviluppo poi di diversi tipi di comportamenti difettivi. Per farlo, e in generale per capire il rapporto causa-effetto di un determinato fattore, servono modelli preclinici».
Perché sono così importanti?
«Ci sono ancora tante cose che dobbiamo capire del nostro cervello che è un organo davvero complesso: è formato da tante aree cerebrali e tantissimi neuroni. Ma essendo protetto dalla scatola cranica, è difficilmente accessibile e, di conseguenza, studiabile a livello molecolare e cellulare. Affidarsi a modelli preclinici è allora fondamentale. Il nostro progetto finanziato dal Fis, che nasce dalla collaborazione con il collega Valter Tucci, va in questa direzione e cerca di colmare un gap: per alcune patologie del sistema nervoso non abbiamo i modelli preclinici e senza modelli sperimentali affidabili e validati è difficilissimo comprendere i meccanismi biologici alla base di una disfunzione, di una patologia, ecc. Nel nostro caso in particolare, stiamo cercando di sviluppare modelli che possano simulare traumi di diversa natura ed entità, per studiarne gli effetti sui sistemi biologici e cercare di capire quali potrebbero essere i legami con alcuni disturbi di personalità».
Quali implicazioni pratiche, terapeutiche, potrebbe avere la vostra ricerca?
«Innanzitutto l’avanzamento della conoscenza, è questo già di per sé è un valore. Ma non finisce qui. Perché a livello pratico e operativo, potrebbe offrire una chiave agli psicologi per approcciare diversamente i pazienti, a seconda della tempistica o della natura del trauma subito durante l’età dello sviluppo.
Per esempio, conoscendo la tempistica o la natura dell’esperienza traumatica vissuta da un bambino o da una ragazza, si potrebbero attivare tempestivamente terapie di supporto mirate, potenzialmente prevenendo comportamenti disfunzionali futuri. Inoltre, se riuscissimo a sviluppare modelli preclinici affidabili e validati, potremmo identificare i meccanismi molecolari e cellulari alla base di questi comportamenti, e poter sviluppare trattamenti di tipo farmacologico. La disponibilità di politerapie potrebbe essere la chiave per gestire problemi del neurosviluppo: parliamo cioè del cervello che si è sviluppato in maniera non tipica.
La nostra ricerca è solo un tassello di un puzzle: studiando come l’esposizione a traumi possa influenzare lo sviluppo di questi disturbi, possiamo avvicinarci a una comprensione più profonda e alla possibilità di trattamenti più efficaci.
Una cosa è certa: la ricerca non deve mai fermarsi, perché più target riusciamo a identificare, più interventi farmacologici potremo avere a disposizione, da usare singolarmente o in combinazione. Questo è il goal del futuro. Adesso stanno nascendo tante startup che si dedicano al sistema nervoso centrale, e che stanno trovando anche fondi importanti. Io sono speranzosa per il futuro e da ricercatrice che guarda sempre oltre, più lontano, confido che la sinergia di approcci diversi possa portarci dove la singola terapia non riesce».
Ha detto che la vostra ricerca è solo un tassello di un puzzle, allora, in generale, quali progressi si stanno facendo in questo campo?
«Stiamo cercando di comprendere meglio come disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo siano legati a disfunzioni nella maturazione neuronale. E, come dicevo, i modelli preclinici sono fondamentali per poterlo fare. Ce ne sono già alcuni basati su cellule indotte pluripotenti: per esempio cellule della pelle riprogrammate per diventare neuroni. Sono molto utili perché ci permettono di osservare quello che non puoi fare direttamente sulle persone: consentono cioè a livello cellulare di osservare come neuroni di pazienti si sviluppano e come possono essere influenzati da anomalie genetiche o ambientali.
Anche gli organoidi sono modelli preclinici. Il punto è che ogni modello può darti un certo tipo di informazioni, ma la risposta ultima alla domanda cruciale “qual è il responsabile, qual è il potenziale target farmacologico?” può arrivare solo dalla combinazione di diversi modelli. Per questo sono necessari sforzi congiunti tra chi fa ricerca, tra ricercatori e clinici, le associazioni di pazienti e così via».
Se capisco bene, il suo intento è cercare di tradurre le conoscenze che può acquisire facendo ricerca di base in qualcosa di utile per le persone con disturbi al livello del sistema nervoso centrale.
«Ho sempre studiato lo sviluppo del cervello. Quando ero alla Normale di Pisa studiavo l’influenza di eventi positivi sullo sviluppo del cervello, tipo l’ambiente arricchito. Poi quando ho avviato il mio laboratorio all’IIT ho iniziato a studiare le patologie del neurosviluppo e ho messo insieme i due aspetti, perché l’ambiente, nel bene e nel male, ha un ruolo fondamentale nello sviluppo del cervello.
E ora confidiamo di poter contribuire a comprendere meglio i disturbi neuropsichiatrici legati a traumi. L’auspicio è non solo chiarire i meccanismi biologici che sottendono disturbi della personalità, ma anche contribuire allo sviluppo di terapie più efficaci. È un lavoro di lungo termine, ma sono ottimista riguardo alle ricadute di questo progetto che sta per partire».