Nata nel 2015 dall’iniziativa di un gruppo di manager ed esperti, l’associazione Italian Angels for Biotech in otto anni ha supportato lo sviluppo di startup e progetti innovativi nel settore delle scienze della vita. Ne abbiamo parlato con il presidente Luca Benatti, per il quale ancora permangono difficoltà del sistema italiano nel valorizzare la ricerca accademica e favorire la nascita di nuove imprese.
Come è nata l’idea di creare Italian Angels for Biotech e quali sono gli obiettivi principali che vi siete posti?
L’associazione nasce dall’esperienza di un gruppo di amici e colleghi che, come me, avevano maturato competenze nella raccolta di capitali per start-up innovative, soprattutto all’estero. Insieme abbiamo constatato le difficoltà dell’ecosistema italiano nel valorizzare la ricerca accademica e nel far nascere e sviluppare nuove imprese nel settore delle scienze della vita.
Ci siamo interrogati sulle carenze del sistema e abbiamo ritenuto di poter fornire un contributo mettendo a disposizione la nostra rete di contatti e know-how manageriale, con l’obiettivo non di sostituirci agli investitori ma di supportare la creazione di competenze e connessioni utili. Spesso ci siamo confrontati con le difficoltà dei ricercatori italiani nel compiere il passo verso l’impresa, sia culturalmente sia concretamente, anche per mancanza di quella rete di competenze necessarie a presentare business plan credibili.
Ci siamo chiesti: cosa possiamo fare? Nessuno di noi poteva dedicarsi a tempo pieno a questa attività, avendo già impegni personali e aziende proprie. Abbiamo deciso di creare un’associazione con l’obiettivo di fare anche piccoli investimenti, ma soprattutto di mettere insieme persone con esperienza industriale per valutare una serie di progetti. Laddove possibile, avremmo facilitato il contatto con investitori di venture capital, fornendo anche consigli per elaborare business plan credibili. In alternativa, nelle fasi più precoci, avremmo supportato la creazione d’impresa, ad esempio entrando nel CdA.
L’associazione è stata creata nel 2015, i soci sono manager, imprenditori, professionisti con esperienza in startup. Operiamo senza una vera struttura, ognuno dedica volontariamente parte del suo tempo. Non chiediamo compensi per l’attività di analisi e mentoring, lasciata all’interesse personale.
Per rafforzare il nostro percorso, lo scorso anno abbiamo creato una partnership con il Club degli Investitori, che fa investimenti di angel investing a 360 gradi. Così i progetti che valutiamo confluiscono nelle loro iniziative, con accesso ad una platea più ampia di investitori.
Quindi il vostro lavoro è no profit?
L’attività di analisi e commento dei progetti è lasciata all’interesse personale dei singoli soci. Non è l’associazione in quanto tale che offre servizi, ma i partner che decidono volontariamente di dedicare tempo alle iniziative di loro interesse.
Eventualmente, i soci più coinvolti in un progetto possono poi decidere di investirci direttamente, ma sempre a titolo strettamente personale.
Oltre ad investitori e imprenditori, ci sono anche profili come ricercatori e medici?
Certamente. I nostri soci, che si possono vedere sul sito con i relativi profili, comprendono manager, imprenditori con esperienza in startup, ma anche professionisti del settore farmaceutico e della ricerca. O responsabili di fondi di investimento che aderiscono però a titolo personale.
In sintesi, cerchiamo di creare un network multidisciplinare di competenze utili allo sviluppo d’impresa nel life science.
Qual è il bilancio di questi primi otto anni di attività?
Il sistema sta lentamente crescendo, ma permangono difficoltà. Dal mio punto di vista, persiste una frammentazione delle iniziative e manca la capacità di fare vero sistema.
Le criticità che osservavo dieci anni fa all’interno delle università italiane sono ancora presenti. Ad esempio, gli uffici di trasferimento tecnologico sono carenti di competenze e operano in modo inadeguato.
Quando ero in Assobiotec, ho provato a lanciare un progetto per la creazione di un ufficio nazionale con profili internazionali per supplire alle carenze locali. Avevamo ricevuto sostegno dal Ministero dello Sviluppo Economico, ma poi il MIUR ha bloccato tutto per timore di perdere autonomia.
Purtroppo, in dieci anni non ho visto cambiamenti reali su questo fronte, nonostante le risorse investite. Mancano le competenze e si crea un circolo vizioso.
È un peccato, perché la ricerca accademica italiana è di ottimo livello, ma senza il giusto network manageriale che attragga investimenti, i progetti finiscono nel nulla. Il mondo universitario potrebbe dare molto di più in termini di prodotti commerciali all’Europa.
C’è qualcosa che secondo lei manca per sostenere queste iniziative?
Intanto vorrei menzionare una misura pratica e concreta che ha dimostrato di essere d’aiuto: il credito d’imposta. Il credito d’imposta è stata un’iniziativa estremamente efficace e pratica, che non ha richiesto infrastrutture particolari e ha garantito benefici chiari a coloro che investono in ricerca. Al contrario, molte altre iniziative sembrano essere state avviate con poca competenza. Francamente, sembra mancare una regia adeguata. Questo non dovrebbe essere interpretato come una mancanza di volontà politica nel fare qualcosa, ma piuttosto come una carenza di competenze all’interno dei vari governi nel capire come utilizzare queste risorse in modo efficace per il sistema.
Oltre al credito d’imposta, quali altri strumenti dovrebbe attivare la politica per sostenere le imprese innovative e attirare investimenti?
Senz’altro, una cosa che dovremmo evitare è la creazione di enti burocratici ingombranti. È essenziale pensare alle risorse economiche e cercare di agevolare il contributo del settore privato. Se ci sono fondi di investimento interessati a creare nuovi progetti o fondi, dovremmo fornire risorse economiche e consentire al settore privato di gestirle. Perché dovremmo creare iniziative pubbliche ingombranti? Onestamente, sarebbe più utile investire denaro nella ricerca accademica e sperare che questa produca numerosi progetti. Dato che l’Italia investe molto poco in questo campo, dovremmo evitare di creare strutture burocratiche complesse, agevolare la ricerca e promuovere il trasferimento tecnologico.
Nonostante gli sforzi di realtà come Italian Angels for Biotech, il cammino per valorizzare appieno il potenziale dell’innovazione nel settore delle scienze della vita in Italia appare ancora lungo. Serve un maggiore impegno da parte delle istituzioni nel potenziare il trasferimento tecnologico dalla ricerca all’impresa, snellire la burocrazia e attrarre investimenti privati con incentivi mirati. Il contributo delle associazioni resta cruciale, ma per compiere un vero salto di qualità è necessaria una strategia di sistema che superi le logiche campanilistiche.