Massaro (Cerba HealthCare): «Sanità pubblica e privata devono collaborare, non competere»

Massaro (Cerba HealthCare): «Sanità pubblica e privata devono collaborare, non competere»

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Laura Morelli

Perché ne stiamo parlando
Stefano Massaro, CEO di Cerba HealthCare Italia, racconta l’evoluzione da Delta Medica e la visione di una sanità sostenibile e centrata sul paziente.

Un laboratorio a Rozzano, meno di un milione di euro di fatturato e un’idea chiara: offrire servizi sanitari privati, ma accessibili e vicini al cittadino. Così nasce Delta Medica, che in poco più di un decennio diventa la base italiana per l’espansione di Cerba HealthCare, oggi tra i principali gruppi europei della diagnostica e medicina territoriale. In questa intervista, Stefano Massaro — avvocato di formazione, oggi alla guida di Cerba HealthCare Italia — ripercorre l’evoluzione del gruppo, riflette sul ruolo del privato all’interno del Servizio Sanitario Nazionale e lancia una visione chiara per il futuro: tecnologia, prevenzione e centralità del paziente, in un ecosistema sanitario sostenibile.

Massaro, come nasce Cerba HealthCare in Italia e come si è sviluppata?

«Tutto comincia con Delta Medica, una micro-società con un laboratorio e tre punti prelievo — due a Rozzano e uno a Opera — e meno di un milione di euro di fatturato. Era il 2000. All’epoca le catene sanitarie erano una novità e io, che facevo l’avvocato, mi occupavo proprio di questo. L’healthcare è entrato nella mia vita anche grazie a mio padre, ematologo, che ha vissuto sulla sua pelle le difficoltà di un Servizio Sanitario Nazionale che pur essendo tra i migliori ha subito tagli e revisioni importanti.

Da lì ho cominciato a unire i puntini. Ho immaginato un servizio sanitario privato che fosse accessibile, vicino al cittadino. Delta Medica ha iniziato così: con un poliambulatorio e un centro di medicina dello sport attrezzati per la diagnostica e l’analisi di laboratorio. Le visite specialistiche costavano 58 euro — era il 2005-2006. Siamo stati i primi a integrare nella cartella clinica i dati raccolti da wearable device, grazie a una partnership con Garmin introducendo il concetto di medical life coaching».

Quando l’unione con Cerba HealthCare?

«Con Delta Medica siamo cresciuti in maniera organica fino al 2016 arrivando a contare 11 sedi, tre con diagnostica ambulatoriale, dieci punti prelievo, quattro centri di medicina sportiva e un fatturato intorno ai 10 milioni. Cerba HealthCare, multinazionale nata in Francia negli anni ’60, specializzata in esami rari e specialistici arriva poco dopo. Cercavano di espandersi in Italia e ci hanno proposto un’acquisizione che abbiamo accettato, l’operazione si è chiusa a gennaio 2017.

Da allora, siamo diventati la “lead” per lo sviluppo italiano del gruppo, con un percorso selettivo di acquisizioni mirate: strutture d’eccellenza nella diagnostica, come Curie e Basile a Napoli. Dal 2016 al 2021 siamo passati da 10 a 60 milioni di fatturato. Oggi abbiamo oltre 400 sedi, 2000 dipendenti e 2000 collaboratori, con un fatturato che sfiora i 300 milioni».

Si dibatte molto oggi sulla tematica della “proprietà” della sanità, anche considerando la situazione del SSN. Secondo lei quale può essere il ruolo di una realtà come Cerba HealthCare in questo contesto?

«Bisogna intendersi: la sanità pubblica è quella pagata con denaro pubblico. Ma non è detto che il fornitore sia pubblico. Humanitas, ad esempio, è un privato che eroga prestazioni pubbliche. Al contrario, il Niguarda ha un azionista pubblico ma fa anche attività privata. Ma discutere di questo non fa l’interesse del cittadino che dovrebbe essere uno solo: ricevere la miglior cura possibile, al costo più basso. Che il fornitore sia pubblico o privato è del tutto secondario. Cerba fa entrambe le cose: eroghiamo prestazioni sia in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, sia in regime privato. Il vero problema è che la sanità pubblica è sottofinanziata.

Si parla tanto di sprechi ma i numeri raccontano altro, per fare un esempio in Italia si fanno 107 TAC ogni mille abitanti, in Francia 223. Se spendessimo la stessa quota di PIL della Francia, oggi avremmo 30 miliardi in più da investire, su un totale attuale di circa 175, e quindi si potrebbero fare più TAC andando ad abbattere i tempi delle liste d’attesa».

Il successo del privato è legato all’insufficiente mole di fondi impiegati dal pubblico e quindi alle sue relative difficoltà?

«No, è l’opposto. Prendiamo le risonanze: se ho un milione di euro di budget regionale posso fare 27 risonanze al giorno. Ma se ne ho capacità per 40 le altre 13 non me le paga nessuno. Se potessi erogarle tutte in regime pubblico, lo farei. Non ho alcun interesse a vendere prestazioni a caro prezzo. Il problema è che si sta cercando di abbassare i costi delle prestazioni (i nuovi LEA) per dire che si stanno riducendo le liste d’attesa, ma si rischia di impoverire il sistema. Non si fa speculazione se si risponde a una domanda reale, offrendo servizi dove il pubblico non riesce ad arrivare».

La prevenzione è sostenibile secondo lei?

«In teoria sì, ma servirebbe un investimento colossale. Se volessimo ridurre ad esempio del 20% l’incidenza delle malattie croniche in dieci anni, dovremmo investire circa 15 miliardi solo per una fascia della popolazione — mettiamo 500 euro l’anno per 31 milioni di persone. E ci vogliono dieci anni per arrivare al pareggio. Chi dovrebbe pagare? Il ministero dell’Economia ha stanziato un miliardo in più, ma non è detto che venga usato in modo efficace.

Le assicurazioni? Quelle di massa coprono 200-250 euro a persona: troppo poco. Quelle d’élite costano 1500-2000 euro l’anno ma spesso non hanno convenienza a investire in prevenzione. La verità è che la prevenzione deve diventare una responsabilità individuale. Se mi ammalo a 60 anni, e la medicina mi tiene in vita fino a 85, il costo ricade sulla collettività. Con la situazione demografica che abbiamo, questo modello non è più sostenibile».

Allora pubblico e privato possono coesistere?

«Certo, ma servono ruoli chiari. Perché non investire per erogare prestazioni pubbliche in strutture private? Noi lo facciamo: abbiamo salvato e rilanciato molte sedi territoriali che altrimenti avrebbero chiuso. Abbiamo accentrato i costi e ottimizzato l’efficienza. Io vorrei uno Stato che regola e controlla, non che faccia il concorrente.

Oggi il pubblico fa tutto: stabilisce le regole, paga e compete — ma con regole diverse. Il concetto di sanità come bene di consumo non è sbagliato se si intende come bene di cui tutti devono poter usufruire, in modo equo e sostenibile. Ma il principio di sussidiarietà non deve essere “al privato vanno gli scarti del pubblico”. Bisogna lasciare agli investitori lo spazio per investire regolando bene i valori delle prestazioni».

A livello sanitario generale, quali sono secondo lei le prossime sfide e innovazioni?

«Dobbiamo fare un salto di qualità sui biomarcatori predittivi: esami veri, con risultati chiari, che diano indicazioni sui comportamenti da adottare. Vogliamo costruire un ecosistema che metta il paziente al centro, con tecnologie digitali e dati scientifici integrati. L’obiettivo è una gestione della salute compatibile con lo stile di vita di ciascuno, unendo tecnologia consumer e medicina personalizzata. È questo il futuro su cui puntiamo».

Keypoints

  • Cerba nasce nel 2000 da Delta Medica, piccola realtà privata, e cresce fino a 400 sedi e 300 milioni di fatturato con un modello che vuole essere accessibile e innovativo.
  • Dopo l’acquisizione da parte della multinazionale francese Cerba Healthcare nel 2017, diventa la guida per l’espansione del gruppo in Italia.
  • Massaro sottolinea che il problema della sanità pubblica è il sottofinanziamento, non lo spreco: il privato può integrare senza speculare.
  • Per il ceo la prevenzione è fondamentale ma insostenibile a carico dello Stato o delle assicurazioni; deve diventare responsabilità individuale.
  • Il futuro è nella medicina predittiva e digitale, con il paziente al centro, integrando dati scientifici e tecnologia per stili di vita personalizzati.

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