Business

Cerruti (Ita Tech Alliance): “E’ difficile fare innovazione in un paese dove imprese, centri di ricerca e università non dialogano tra loro”

Perché ne stiamo parlando
Il 2022 è stato l’anno dell’Italia per gli investimenti in innovazione, ma sembra più per fortuna che per merito perché gli ostacoli burocratici sono ancora molti. Abbiamo sei fondi di investimento nel life science e sta aumentando la fiducia in questo settore. Saremo capaci di fare tesoro di questo momento positivo?

Il 2022 per l’Italia è stato un anno record per i finanziamenti in innovazione (vale a dire gli investimenti pubblici e privati destinati a imprese e pmi innovative): 1,8 miliardi, una crescita del 48% rispetto al 2021, in netta controtendenza rispetto al resto d’Europa dove l’onda lunga degli investimenti è arrivata prima e ha praticamente saturato i mercati: gli altri quindi rallentano e noi, che fino al 2022 abbiamo fatto ben poco in questo settore, stiamo crescendo. I motivi di questa crescita sono diversi e non devono far cadere in facili entusiasmi, perché se questa rimonta non viene accompagnata da riforme strutturali che snelliscano il lavoro di chi vuole fare innovazione e se gli attori di questo ecosistema (ricerca, finance, istituzioni, pazienti) non si parlano, questa crescita sarà soltanto temporanea. Ne abbiamo parlato con Francesco Cerruti, direttore generale di Italian Tech Alliance, l’associazione italiana dei Venture Capitals, degli investitori in innovazione (business angels, family offices e corporates) e delle startup e PMI italiane

L’Europa rallenta negli investimenti in innovazione, e l’Italia cresce

Secondo i dati emersi dall’ Osservatorio Trimestrale Venture Capital di Italian Tech Alliance, nel 2022, su 1,8 miliardi investiti in innovazione, quelli dedicati al life science sono stati 162 milioni, 34 round di investimenti, posizionando il settore al 5° ambito per investimenti ricevuti (il primo è Smart City). A livello europeo, se analizziamo il primo trimestre del 2023, si continua invece a rallentare (nel settore dell’innovazione in generale): sono stati annunciati 1.571 round (-39% rispetto all’ultimo quadrimestre 2022 e -44% rispetto la media degli ultimi 5 anni), con una raccolta complessiva di €11 miliardi (-14% rispetto al Q4-22 e -31% vs media degli ultimi 5 anni).

Guardando in prospettiva, le tensioni macroeconomiche che hanno caratterizzato i mercati finanziari nella seconda parte del 2022 sembrano destinate a perdurare nel medio periodo e impattare negativamente il VC europeo. Appare evidente che il VC europeo sia stato impattato dal drastico calo delle valutazioni delle società tech quotate, dal peggioramento delle aspettative sui multipli alla data di exit da parte degli investitori e dal generale contesto di incertezza macroeconomica che ha caratterizzato il 2022. Un rallentamento ancora più marcato è stato registrato negli Stati Uniti (-31% vs 2021 nell’ammontare investito e -14% vs 2021 nel numero di round).

Investimenti in innovazione in Europa:

 

Dopo un periodo di grande entusiasmo accelerato dalla pandemia da Covid-19, si assiste adesso a una fase di rallentamento e cautela.

Una fase però in cui il nostro paese, in controtendenza, sta crescendo.

“Questo sta succedendo per due motivi – spiega Francesco Cerruti – il primo riguarda il fatto che l’Italia è un Paese molto periferico in termini di investimenti in innovazione: l’onda qui non è mai arrivata. Si dice che l’Italia sia sette, otto anni indietro rispetto agli altri paesi Ue. Il 2022 è stato l’anno record per l’ Italia in termini di investimenti in innovazione (1.8 miliardi) a fronte degli 11 miliardi investiti in Francia, 13 in Germania, dove il VC ha rallentato! Quindi noi cresciamo perché gli altri mercati sono saturi e rallentano, mentre da noi c’è ancora margine per crescere”.

Questa è la prima volta che l’Italia è in cima alla statistica per l’innovazione. La crescita 2021-2022 è stata del 48%, a fronte di una situazione negli altri Paesi di parità o addirittura di crescita negativa.

Investimenti in innovazione in Italia:

 

Forse perché peggio di così non poteva andare

Ci sono due modi di leggere questi dati, sottolinea Cerruti: “Se guardiamo lo scenario più pessimistico, possiamo leggere questa crescita nel senso che peggio di così (rispetto agli anni passati) non si potesse fare. La visione ottimistica ci dice invece che siamo di fronte a una crescita fisiologica di un ambito che è per sua stessa natura orientato al futuro. Credo che la verità stia nel mezzo: stiamo crescendo perché gli altri mercati sono saturi. Gli investitori stanno iniziando a comprendere che il nostro Paese è un torrente nel quale è più facile trovare una pepita (una start up innovativa). Primo, perché ci sono più pepite ancora sotto l’acqua.

Secondo, perché ci sono, stando alla metafora, meno cercatori. C’è meno competizione: le opportunità sono più numerose in un mercato meno pieno.

Attenzione però: tante start up non significa tanta innovazione. La quantità delle start up non è un buon termometro per valutare il buono stato di salute di un ecosistema. “Noi abbiamo un registro delle startup nel quale ci sono 17.000 imprese – continua il direttore generale di Italian Tech Alliance – se a me viene un’idea oggi, domani vado dal notaio e registro la mia idea. Questo, naturalmente, non fa della mia idea un’impresa davvero innovativa e, al contrario, può avere delle ripercussioni negative quando poi si vanno a tracciare le medie. Ad esempio, la media dei dipendenti sulle 17.000 start up presenti nel registro apposito è minima. Ma perché quelle che effettivamente hanno gamba non sono più del 10%. Quindi, più che il numero delle start up, per valutare il livello di attrattività dell’innovazione bisognerebbe guardare il numero di finanziamenti che sono riuscite a raccogliere. E da questo punto di vista l’Italia è a un miliardo e otto nell’anno di record assoluto e la Francia, nello stesso anno, è a 11 miliardi.

Oggi ci sono sei fondi dedicati alle Life Science in Italia

Il life science è abbastanza emblematico da questo punto di vista, nel senso che negli ultimi due anni in Italia sono stati lanciati sei fondi di venture capital specificatamente dedicati alle science della vita. Prima c’erano solo Panakes e Sofinnova, oggi abbiamo anche: Aurora TT, Claris, Eureka, Genextra/X Gen, Indaco, LIFTT, Vertis. Oltre naturalmente a CDP Venture Capital. “L’aumento dei fondi è un segnale importante sull’aumento di interesse nei confronti del settore delle scienze della vita – rimarca Cerruti – la disponibilità totale di questi fondi ammonta a 400-500 milioni di euro, che devono praticamente essere ancora tutti investiti”.

Detto questo, è chiaro che il nostro Paese sconta un ritardo proprio atavico nei confronti degli altri, in ogni ambito e anche in quello life science. Principalmente per tre motivi: mancanza di classe di investitori, gangli procedurali che limitano l’innovazione, mancanza di dialogo tra chi fa ricerca e chi fa impresa.

Per quanto riguarda il primo punto, Cerruti spiega: “Manca una classe di investitori ( e quindi di finanziamenti continui) che invece sono molto presenti e attivi in altri paesi. Parliamo sia di investitori istituzionali– Casse previdenziali e fondi assicurativi – sia corporate. In altri paesi è normale che una corporate sia dotata di un fondo di venture capital e che quindi investa in start up che operano nell’ambito della sua stessa attività. In Italia sono ancora molto poche. Abbiamo Angelini Ventures e Chiesi, per fare qualche esempio. Per quanto riguarda gli investitori istituzionali abbiamo attori come CDP Venture Capital ed Enea Tech, ma le cifre che muovono non sono consistenti rispetto a quelle mosse da investitori istituzionali di altri paesi. Perché? Perché le start up in questo paese sono ancora viste come l’impresa del ragazzo con la felpa, dei due amici che si riuniscono in cantina. C’è poca fiducia verso queste realtà.

I nodi che frenano l’innovazione nel nostro paese

A parte la mancanza di investimenti, in Italia a rendere difficile l’innovazione ci pensa la burocrazia. Credito d’imposta in ricerca e sviluppo abbassato, impostazione dei trial clinici troppo complessa per le piccole imprese, trasferimento tecnologico debole, sono solo alcuni dei temi su cui l’associazione ha preso posizione, offrendo proposte concrete alle istituzioni.

La disciplina attuale sul credito d’imposta di ricerca e sviluppo (CIR&S) è regolata dalla legge di Bilancio 2020 ( la n. 160 del 27 dicembre 2019), che abbassa il credito d’imposta riconosciuto per chi investe in attività R&S rispetto alla precedente normativa, riducendo al 12% le spese agevolabili per “attività di ricerca fondamentale, ricerca industriale e sviluppo sperimentale in campo scientifico e tecnologico” nel limite massimo di € 3 milioni. Questa decisione ha ridotto la possibilità delle imprese innovative di poter sfruttare gli ingenti investimenti che ogni anno compiono in attività di ricerca e sviluppo. Ma la ricerca portata avanti da Ita Tech Alliance ha fatto emergere altre riflessioni: i dati raccolti dal 2017 al 2019 di 25 startup operanti nel Life Sciences, evidenziano come, anche con i livelli di CIR&S precedenti alla Legge di Bilancio 2020, le startup e PMI innovative Life Science -che investono sempre più in R&S, anche grazie al supporto dei VC- hanno recuperato solo il 25% del totale delle spese R&S. “Ciò che preoccupa – sottolinea Cerruti – è che le startup innovatrici nel Life Science

non riescono a recuperare queste risorse finanziarie sotto forma di credito di imposta, proprio nel momento in cui ne avrebbero più bisogno, ovvero nella fase pre revenues”.

Si propone quindi un credito d’imposta sulla ricerca specificamente dedicato a startup e/o PMI innovative, e che tenga conto dello status “pre-revenues” di molte di esse. L’associazione ha proposto inoltre la reintroduzione di una percentuale di credito di imposta al 50%, con la possibilità di livelli ancora più elevati da riconoscere alle imprese innovative attive nel Mezzogiorno.

Per quanto riguarda i trial clinici, Italian Tech Alliance propone una serie di riforme per migliorare il sistema delle sperimentazioni cliniche, in modo che siano più fattibili anche per le piccole imprese: a partire dalla riforma della normativa di riferimento- la legge 3 del 2018 – si propone poi di stabilire tariffe base per le prestazioni legate alla ricerca clinica, di creare figure professionali specializzate nella ricerca clinica, anche al di fuori degli ospedali universitari, di riorganizzare i Comitati Etici, includendo membri con esperienza diretta nella conduzione di trial clinici. Sarebbe anche utile un database nazionale per archiviare gli studi.

Università e imprese non si parlano, e il trasferimento tecnologico si blocca

Il terzo problema, la mancanza di dialogo tra imprese e mondo della ricerca, configura di fatto un blocco al trasferimento tecnologico.

“Nel nostro Paese queste realtà si parlano ancora troppo poco – sottolinea Cerruti – sono mondi proprio distanti. Al contrario, nel Regno Unito o Stati Uniti la parte di ricerca e la parte di finance sono totalmente allineati. Noi non abbiamo problemi, come sistema-Paese, quando si tratta di inventare un brevetto, né quando si tratta di trasformare il brevetto in licenza. È all’ultimo miglio che arrivano gli ostacoli, cioè il passaggio dalla licenza alle revenue, alla commercializzazione. Questo anche perché c’è una certa distanza tra chi fa il pezzo di invenzione, ricerca e quant’altro e chi poi invece si occupa del supporto, tecnico e finanziario, alla messa a frutto dell’invenzione”.

Ed ecco che il trasferimento tecnologico si blocca. Ma qui l’ostacolo non è solo la distanza tra ricerca e impresa. Uno dei problemi che forse sono sulla via della risoluzione è il cosiddetto professor privilege, cioè l’attribuzione del brevetto di una ricerca all’autore della stessa e non all’ateneo o ente di riferimento. In Europa, questo privilegio è riconosciuto solo in Italia e in Svezia. Secondo la riforma del codice della proprietà industriale che si sta discutendo in queste settimane, questo privilegio potrebbe finalmente essere cambiato: l’ attribuzione dei brevetti non rimarrebbe in capo al ricercatore ma all’ateneo o all’ente di ricerca, in questo modo l’Italia si allineerebbe al modello giuridico di altri paesi europei e renderebbe più agevole per gli atenei la possibilità di finanziarsi tramite i brevetti.

Ma sul trasferimento tecnologico ci sono anche altri problemi: l’Italia si posiziona al quinto posto in Europa per capacità di attrarre fondi europei per la ricerca e lo sviluppo (R&S), ma il budget nazionale per il Tech Transfer è quattro volte inferiore rispetto agli altri paesi europei. Quello che propone Italian Tech Alliance è

facilitare la relazione tra settore pubblico e privato, mediante deroghe nel Codice dei contratti pubblici per consentire agli uffici di trasferimento tecnologico di selezionare consulenti e gestire la negoziazione contrattuale.

Si suggerisce anche di istituire una figura professionale riconosciuta di technology transfer manager negli enti di ricerca pubblici e di introdurre un percorso di formazione, riconoscimento legale e inserimento per gli addetti al trasferimento tecnologico all’interno della pubblica amministrazione. Inoltre, si propone di organizzare seminari formativi presso università e centri di ricerca per creare opportunità di confronto e formazione per studenti e ricercatori.

 

Queste sono solo alcune delle proposte che chi rappresenta il mondo finance prova a lanciare al mondo della ricerca e delle istituzioni. L’Italia sta vivendo un momento positivo per l’innovazione e, anche se forse è dovuto più al fatto che gli altri mercati sono saturi che a una reale attrattività del nostro paese, è un’occasione da mettere a frutto. Ricerca, istituzioni, mondo finance e società scientifiche e di pazienti devono dialogare in modo costante. L’innovazione è un processo multifattoriale, da realizzarsi se tutti gli attori lavorano insieme.

Keypoints

  • L’Italia ha vissuto un anno record per i finanziamenti all’innovazione nel 2022, con una crescita del 48% rispetto al 2021, mentre il resto dell’Europa ha mostrato un rallentamento negli investimenti.
  • Questa crescita si deve fatto che gli altri mercati hanno raggiunto la saturazione e stanno rallentando, mentre in Italia c’è ancora margine di crescita.
  • L’Italia è indietro rispetto ad altri paesi in termini di cultura degli investimenti, ostacoli burocratici e mancanza di comunicazione tra il settore della ricerca e quello delle imprese.
  •  Gli ostacoli all’innovazione in Italia includono crediti d’imposta ridotti per la ricerca e lo sviluppo, processi di sperimentazione clinica complessi e limitato trasferimento tecnologico tra l’università e l’industria.
  • L’Italia ha bisogno di più investitori istituzionali e aziendali per sostenere le startup e creare un ambiente favorevole agli investimenti.
  • Il dialogo e la collaborazione continui tra istituzioni di ricerca, entità finanziarie e organi governativi sono fondamentali per promuovere l’innovazione in Italia.

Ti è piaciuto questo articolo?

Share

Registrati per commentare l’articolo

News

Raccolte

Articoli correlati