Claris Ventures e l'importanza della specializzazione nel venture capital

Claris Ventures e l’importanza della specializzazione nel venture capital

Picture of Laura Morelli

Laura Morelli

Perché lo abbiamo scelto
La sgr fondata da Pietro Puglisi e Ciro Spedaliere ha annunciato il primo closing del secondo fondo che punta a raccogliere 100 milioni.

Investire nel biotech può significare tante cose perché tante sono le sfaccettature che compongono questo settore. Scegliere un verticale ben preciso, come una fase definita della ricerca, può essere vincente. Lo è perlomeno per Claris Ventures, nostra market player del mese e sgr che investe esclusivamente in team pronti a iniziare la fase di ricerca pre-clinica per sviluppare farmaci ben precisi, aiutandoli a mettere in piedi la struttura aziendale e mettendoli in contatto con le grandi aziende farmaceutiche, che infatti coinvestono.

«A oggi su dieci società investite con il Fondo uno, quattro programmi terapeutici sono già entrati in fase clinica e le società partecipate hanno raccolto complessivamente oltre 170 milioni euro di capitale, attirando l’interesse di investitori internazionali e gruppi farmaceutici, tra cui Sanofi, Bristol Myers Squibb e ONO Pharmaceutical», spiega in questa intervista a INNLIFES Pietro Puglisi, ingegnere biomedico fondatore di Claris Ventures assieme al venture capitalist Ciro Spedaliere.

E se il primo fondo è quasi tutto investito e sta dando soddisfazioni – dice Puglisi – la società ha appena annunciato il primo closing di Claris Biotech II, secondo veicolo di venture capital dedicato a investimenti early-stage in startup biotech nate dal network della ricerca italiana, con un target di raccolta di 100 milioni di euro.

In occasione del primo closing, Claris Ventures ha inoltre annunciato l’ingresso nel team di Giulia Vestri in qualità di Partner.

Dott. Puglisi, il secondo fondo ha le stesse caratteristiche del primo?

«Il fondo prosegue il percorso avviato con il primo fondo lanciato nel 2020, che aveva raccolto complessivamente 85 milioni di euro. Quindi: focus importante sull’Italia e stesso approccio d’investimento in realtà molto innovative o di supporto alla nascita di nuove, lavorando in modo molto coinvolto sin dall’inizio, portando progetti dalla pre-clinica alla clinica».

Parliamo di Claris: quando è nata, quali sono i vostri obiettivi e come sta andando con il primo fondo?

«Claris è nata nel 2020 con il lancio del suo primo fondo biotech. L’abbiamo fondata io e il mio socio Ciro Spedaliere dopo aver constatato che in Italia nessun operatore di venture capital era specializzato nello sviluppo di farmaci. All’estero, penso in particolare a paesi come Francia, Olanda, Inghilterra, il meccanismo di supporto allo sviluppo di farmaci funziona molto bene e ha permesso la nascita di grandi società biotech e ritorni importanti. In Italia la scienza è altrettanto interessante, ma nessuno si era mai concentrato su quello specifico verticale. Claris nasce investendo soltanto nello sviluppo di therapeutics».

E come sta andando?

«L’idea con il primo fondo da 85 milioni era fare una decina di investimenti. È stato così: nel giro di quattro anni abbiamo fatto dieci operazioni in società basate in Italia o fondate da scienziati italiani con forti legami con l’Italia, tutte come lead investor. Quest’ultimo aspetto ci permette di essere vicini a ricerche che non sono ancora state trasformate in imprese da altri, e in particolare ci consente di investire in situazioni dove non siamo il fanalino di coda in un grosso prestito sindacato. Siamo sempre lead all’interno di operazioni che contribuiamo a far nascere».

Quali sono i vostri ticket o tagli d’investimento?

«Di solito il nostro primo investimento è tra i 3 e i 5 milioni, ma all’interno di un round che di solito è fra i 10 e i 15 milioni. Così siamo sicuri di poter supportare tutta la fase preclinica. Poi seguiamo allocando altri 3-5 milioni sulle società che entrano in fase clinica. Le nostre società hanno raccolto più di 170 milioni, di cui noi ne abbiamo investiti meno di un terzo.

Un altro elemento che ci sembra stia funzionando molto è creare aziende che poi attirino l’attenzione di coinvestitori europei o internazionali, tra cui anche case farmaceutiche. In una società che si chiama Miofor, in ambito oncologico, ha investito Bristol Myers Squibb. In un’altra, Resalis Therapeutics, in ambito obesità, ha investito Sanofi. Poi Sibylla Biotech ha fatto un agreement per lo sviluppo di due farmaci con Ono Pharmaceutical in Giappone per alcune centinaia di milioni».

In che tipo di realtà investite?

«Tutte startup alle primissime fasi di vita o ancora da costruire che siano in fase pre-clinica, con l’obiettivo di portare i programmi fino alla prima evidenza in clinica. A oggi su dieci società create, quattro hanno già programmi arrivati in clinica e in aree terapeutiche tra le più diverse. Siccome non abbiamo limiti in termini di area, abbiamo un programma in neurologia che ha già finito la fase 1, uno in ambito obesità che sta conducendo fase 1, un altro in fibrosi cistica e uno in ambito oncologico.

Questo è più o meno il panorama di quello che abbiamo in sviluppo. In generale, siamo agnostici in termini di area terapeutica. Ci interessa che ci sia una necessità clinica forte, che non ci sia una cura sufficientemente risolutiva e che sia chiaro il percorso per generare l’evidenza che convinca una casa farmaceutica a prendere in mano il progetto».

Quindi vedete già in fase di ricerca uno sbocco commerciale?

«Sì, esatto. Deve essere chiaro quali sono gli elementi per cui, a valle di una fase uno o due A, una casa farmaceutica possa dire che il progetto comporta rischi gestibili. Spesso lavoriamo con società single asset: un programma molto definito, costruito attorno a un singolo farmaco, con passi, rischi e obiettivi ben delineati».

Come si articola e si esplicita il rapporto tra voi e le startup? Non è solo una questione economica…

«Siamo fortunati di poter lavorare con ricercatori e ricercatrici eccellenti, tra i migliori al mondo nel panorama italiano. Fin da principio lavoriamo a quattro mani con loro. L’aspetto rilevante è che ci sia una biologia differenziante, in grado di offrire una cura che cambia la vita del paziente. All’inizio siamo noi, insieme agli scienziati, a dar vita al piano, ad assumere le prime persone, a disegnare i passi successivi e a dialogare con le case farmaceutiche il prima possibile.

Quando la fase preclinica è avviata, facciamo in modo che le società abbiano un management autonomo: assumiamo un CEO che traghetti la società verso la clinica. Rimaniamo comunque molto coinvolti: risolviamo problemi, valutiamo cambi strategici, supportiamo il fundraising. Creiamo sinergie nel dialogo con le case farmaceutiche: possiamo mettere diversi cappelli e capire quale società del portafoglio possa beneficiare di un’opportunità».

Vi fate un po’ da trait d’union tra l’idea dei ricercatori e la startup, quindi?

«Esatto. Succede anche che uno stesso coinvestitore entri in più nostre partecipate. Cerchiamo di promuovere tutto il portafoglio, affinché coinvestitori, case farmaceutiche, imprenditori e advisor possano essere disponibili per le necessità di tutte le società in portafoglio. L’obiettivo è accompagnare le startup fino alla validazione clinica iniziale, creando le condizioni per operazioni di partnering ed M&A da parte di grandi gruppi farmaceutici».

Chi sono stati gli investitori del secondo fondo?

«Gli anchor investor sono gli stessi del primo: CDP Venture Capital e European Investment Fund. Entrambi ci hanno dato fiducia. Il secondo fondo è nato prima della scadenza del periodo di investimento del primo, che abbiamo chiuso in anticipo perché il portafoglio era completato. Abbiamo coinvolto molti privati già presenti nel primo fondo e anche nuovi. Ci aspettiamo, grazie anche alle nuove normative che incentivano gli investimenti in venture, che si aggiungano altri investitori istituzionali italiani».

A tal proposito, pensi che con lo Scale-Up Act si possa avere un’accelerazione?

«Sono ottimista. Lo spirito è positivo. Permetterà a molti di capire meglio come collaborare con i fondi in modo win-win, per ottenere ritorni e strategie sostenibili. Siamo felici di essere tra i primi a lanciare un nuovo fondo in questo contesto».

Qual è la vostra visione sul biotech nel 2025?

«Negli Stati Uniti oggi c’è una tempesta in atto e questo rende fondamentale ridurre l’imprevedibilità nello sviluppo di un farmaco. Contestualmente Paesi come l’Australia, che offrono incentivi fiscali e gestione clinica semplificata, diventano alternative credibili e anche in Europa fornitori e partner sono ormai molto affidabili. Bisogna concentrarsi sui fondamentali. Programmi chiari, semplici, puliti. In Italia lo sappiamo fare bene. Anche a costo di stare sottotraccia, ma con risultati veri. Il cardio-metabolico, ad esempio, ha visto un’esplosione. La patologia è diffusa e ha impatti su molte altre. I fondamentali restano la chiave».

Cosa intendi per fondamentali?

«Che il bisogno clinico sia forte, la patologia chiara, diagnosticabile, con decorso prevedibile. Se si sviluppa un farmaco per una malattia ben definita, diventa interessante per una farmaceutica. Evitiamo hype e mode. Ci teniamo il rischio biologico, ma tutto il resto dev’essere ridotto al minimo».

Quali ambiti vedi più interessanti oggi?

«L’oncologia resta centrale. Il bisogno è enorme. Il lavoro sulle sottopopolazioni rende l’oncologia sempre più affrontabile. Per fare un esempio, abbiamo finanziato Alchemist, che si occupa di tumori guidati da mutazione ALK, quindi popolazione molto ben definita. Oltre all’oncologia, abbiamo fatto qualcosa nel neurologico e vorremmo farne di più, così come nell’immunologico».

Come trovate ricercatori e idee?

«In Italia il sistema è meno strutturato. Setacciamo tutto: pubblicazioni, brevetti, grant. A volte contattiamo direttamente noi gli italiani all’estero e l’angolo dell’italianità è un vantaggio. Abbiamo lanciato iniziative in Italia con collaborazioni internazionali, con Harvard, King’s College, ETH Zurigo».

L’Italia che partita può giocare nei prossimi cinque o dieci anni?

«Se siamo intelligenti nel concentrarci su progetti con alta probabilità di successo, possiamo giocarcela. I progetti che partono dalla clinica spesso hanno più chance. Bisogna anche raccogliere i capitali giusti, con standard di mercato. Non si può fare sviluppo in garage. Servono capitali sui progetti giusti. Noi nel nostro stiamo costruendo casi di successo per validare tutta la filiera. L’aspetto rilevante e positivo è che quando abbiamo lanciato il fondo uno non esistevano operatori specializzati, ora il mercato si sta costruendo».

E il ruolo della tecnologia, in particolare l’AI?

«Fortunatamente i ricercatori più saggi la usano già. Dal design della chimica al design degli esperimenti. Anche lo scouting della letteratura ne è influenzato. È già una parte integrante di ciò che facciamo, e lo sarà sempre di più».

Un problema di chi investe in venture capital sono le exit, la vendita delle società in portafoglio. Nel caso di Claris, la verticalità e i contatti con le grandi aziende farmaceutiche risolvono questo problema oppure permane?

«Il nostro obiettivo è dimostrare con i dati che i farmaci che sviluppiamo possono essere efficaci e sicuri. A quel punto avere a bordo delle case farmaceutiche ci permette di validare la bontà del percorso intrapreso e seppur sia naturale che servano alcuni anni per passare dall’inizio della preclinica all’evidenza sull’uomo sentiamo che questo modello sia sufficientemente robusto. Inoltre, la fortuna di chi sviluppa farmaci è che non devi arrivare alla fine della fase clinica o sul mercato per generare delle exit.

Tipicamente con le prime evidenze in clinica c’è già interesse da parte delle case farmaceutiche. La nostra ambizione nel breve è riuscire già a dimostrare col Fondo uno che questo modello funziona e quindi generare le prime exit».

Pensate di annunciarne già quest’anno?

«Questo è un mondo in cui nel giro di cinque o sei anni si riesce tipicamente a generare un dato interessante, noi siamo al quinto anno del Fondo uno, quindi l’obiettivo è riuscire a lavorare sulle prime exit già a breve».

Keypoints

  • Claris Ventures, market player del mese, investe esclusivamente in startup biotech italiane nelle primissime fasi, focalizzandosi sullo sviluppo di farmaci e accompagnandole dalla pre-clinica alla fase clinica.

  • Il primo fondo ha investito 85 milioni di euro in dieci società, quattro delle quali sono già in fase clinica, attirando oltre 170 milioni complessivi di capitale e l’interesse di investitori internazionali.

  • Il nuovo fondo, Claris Biotech II, ha come target 100 milioni e replica l’approccio del primo: focus sull’Italia, partecipazione attiva alla creazione e gestione delle startup, e supporto fino all’evidenza clinica iniziale.

  • Abbiamo intervistato uno dei fondatori, Pietro Puglisi, che ci ha spiegato la strategia di investimento e illustrato la sua view sul biotech.

Altri articoli