Il percorso che porta alla nascita e allo sviluppo di imprese nel settore life science non è facile. Una startup in questo ambito deve attrarre risorse esterne malgrado le incertezze tecnologiche, di mercato e anche manageriali. Centrale è il ruolo propulsivo del venture capital anche se, va detto, in Italia l’ecosistema di investitori che conoscono il settore e che possono (o vogliono) assumersi il rischio, non è proprio florido. È pur vero però che le cose stanno evolvendo e la scoperta di nuove soluzioni per esigenze mediche non soddisfatte rappresenta, anche per il nostro Paese, un mercato promettente. Delle politiche di investimento focalizzate su startup innovative capaci di definire nuove tecnologie nel settore life science ne parliamo con Federica Draghi, Founder & Managing Partner di XGEN Venture, società italiana di gestione di fondi di investimento fondata nel 2021 dall’ex team Genextra.
Dottoressa Draghi, qual è a suo avviso lo stato dell’arte del settore life science?
«Avanzamenti tecnologici chiave nel sequenziamento del DNA o nella comprensione del sistema immunitario nei primi anni Duemila, hanno dato vita a terapie un tempo inimmaginabili. È notizia di questi giorni l’approvazione della prima terapia di “gene editing” per l’anemia, come sono ben noti a tutti i risultati ottenuti con le immunoterapie in ambito oncologico. Infine, l’integrazione di dati e l’intelligenza artificiale in campo diagnostico diventeranno sempre più comuni, consentendo un’analisi più rapida e affidabile».
Quali aziende avete in portfolio? E quali sono le aree terapeutiche più promettenti?
«Un anno fa abbiamo lanciato un nuovo fondo di investimento, XGEN Venture, con il quale vogliamo investire in 10-15 startup all’avanguardia nell’identificare nuove terapie. A oggi abbiamo completato un investimento seed in Page Therapeutics che ha un approccio rivoluzionario alla cura dei tumori. Si tratta di una startup creata da Nicola Aceto, un ricercatore estremamente in vista. Il suo è tra gli 11 studi clinici da tracciare nel 2023 secondo la rivista Nature. Parliamo di una rising star perché ha compreso la necessità non tanto di aggredire il tumore diagnosticato, quanto piuttosto di impedire che questo tumore si propaghi ad altri organi. Indentificando i fenomeni che spiegano il comportamento delle cellule che creano metastasi, ha trovato alcune molecole in grado di bloccare questa prolificazione.
Il nostro secondo investimento è in Nouscom che, con vaccini a vettore virale ingegnerizzati, è in fase di sperimentazione clinica avanzata per alcuni tipi di tumore. Il team di Nouscom ha messo a punto tecnologie all’avanguardia per educare il sistema immunitario a riconoscere e aggredire determinate cellule tumorali. Sono già in clinica con questo prodotto. Dal 2004 al 2021, con lo stesso team, abbiamo investito in maniera trasversale e attualmente abbiamo in portafoglio quattro società che spaziano dai dispositivi diagnostici di ultima generazione quali il See.d di Tethis, un’alternativa non invasiva alle biopsie chirurgiche che permette ai medici di diagnosticare un tumore attraverso un semplice prelievo di sangue; ai dispositivi medicali impiantabili come il Saturn di InnovHeart, una valvola mitrale cardiaca già sperimentata sull’uomo e che si sostituisce a quella malata senza un’operazione a cuore aperto; fino ad arrivare a terapie farmacologiche innovative per i tumori come quella di TargImmune o per la cistite interstiziale di Kuste Biopharma».
Quali sono le prospettive nel settore in termini di liquidità upfront, IPO precliniche e investimenti?
«Dopo il picco raggiunto durante la pandemia in termini di capitali raccolti, di quotazioni in borsa e di valorizzazioni raggiunte, oggi gli indici del settore sono ai minimi degli ultimi tre anni e non si intravede ancora il punto di inversione. Questo benché i fondamentali siano solidi vista la maturazione e traslabilità clinica di numerose scoperte scientifiche a dir poco straordinarie. Le difficoltà nei mercati pubblici si ripercuotono anche in quelli privati dove le startup del settore faticano a raccogliere capitali nuovi e le loro valutazioni scendono. Nel confronto con gli Usa, assistiamo a un enorme divario nelle valutazioni e nella capacità di raccolta delle startup. Nonostante ciò, sia i fondi specialistici sia le Big Pharma hanno accumulato capitali tali che saranno investiti in biotech e medtech meritevoli».
In una startup qual è il contributo di un investitore VC?
«Gli investitori di venture capital portano molto più che solo finanziamenti. Nel nostro settore è necessaria una vasta esperienza specifica per offrire una preziosa consulenza strategica basata su successi e fallimenti passati. Questa saggezza pratica aiuta la startup a evitare errori e a guidare la crescita. Un buon investitore porta con sé un ampio network di contatti per aprire nuove opportunità di partnership. Noi, per esempio, offriamo anche supporto operativo diretto, soprattutto nel caso in cui si tratti di investimenti in stadio embrionale anche chiamati “company creation”, come supporto legale o servizi di contabilità. Questo serve ad alleggerire il carico amministrativo per le startup, consentendo loro di concentrarsi sullo sviluppo tecnologico».
Che cosa manca in Italia per creare un ecosistema di investitori nel campo delle scienze della vita?
«Gli investimenti nel life science possono essere più imprevedibili e richiedere pazienza, ma se gestiti con una logica di portafoglio – e non di singolo investimento – possono portare a risultati finanziari straordinari. L’Italia ha da sempre investito pochissimo nel VC e di questo solo una quota marginale dedicata al life science. Noi siamo stati i primi in Italia a investire capitali privati nel drug discovery, la scoperta di nuovi farmaci, mentre in altri Paesi la presenza di più fondi permetteva di formare sindacati di investitori. Oggi però si sono formati altri fondi e, seppur l’ammontare complessivo raccolto è ancora molto basso, notiamo che c’è più attenzione da parte degli investitori istituzionali».
Quali competenze deve avere il professionista del trasferimento tecnologico?
«Il trasferimento tecnologico coinvolge la trasformazione di scoperte scientifiche in prodotti commerciali, licenze di tecnologie o la creazione di spinoff aziendali. In questo contesto occorre saper stabilire la brevettabilità delle innovazioni con una solida comprensione del processo di sviluppo, inclusi i requisiti regolamentari, le fasi di sperimentazione clinica e le tendenze di mercato. Brevettare è costoso, perciò, bisogna essere in grado di valutare criticamente le tecnologie emergenti, la loro fattibilità tecnica e commerciale. Per far sì che i brevetti siano acquisiti da partner industriali, è necessario instaurare relazioni da un lato con i ricercatori e dall’altro con imprese, investitori e altri attori chiave. Parliamo quindi di figure professionali con molta esperienza, difficili da reperire. In Italia si vuole da tempo potenziare il trasferimento tecnologico, un settore storicamente sottofinanziato. Ci sono tuttavia da parte degli investitori segnali positivi, se si pensa anche al fondo di Technology Transfer di CDP Venture Capital e ai poli nazionali di trasferimento tecnologico».