Grande passione per il settore sanitario, competenza scientifica e di business e tre vite all’attivo: la prima nell’industria farmaceutica, la seconda in consulenza (McKinsey e Value Partners) e la terza come fondatore di una boutique di investimento nel settore healthcare, la Medeor Associates. Andrea Pavero, laurea in medicina e master in business administration, è uno dei tre General Partner insieme a Emiliano Tonelli e Carlo Vanoli di Primo Health, il neonato fondo di private equity tecnologico specializzato nell’healthcare che investirà in Pmi italiane. Ha un target di 120 milioni di euro, ticket di investimento da 5 a 20 milioni e ha appena raggiunto il first closing a 64 milioni. Ma c’è una notizia nella notizia: Primo Health entra nella galassia di Primo Ventures, la società di gestione del risparmio con focus sugli investimenti tecnologici e quattro fondi di venture capital all’attivo (Barcamper Ventures, Primo Digital, Primo Space e Primo Climate) che, introducendo la nuova asset class del private equity, cambia nome in Primo Capital.
Perché avete deciso di creare Primo Health?
«Dopo 15 anni di esperienza in investimenti in questo campo e 15 club deal organizzati, con i miei due soci (Vanoli è un ingegnere chimico che ha lavorato per 25 anni nel campo della medical technology, Tonelli è un bocconiano con oltre 15 anni di esperienza nel private equity) ci siamo resi conto che in Italia mancava un verticale sulla sanità nel private equity, mentre ne esistevano diversi nel venture capital».
Come è avvenuto l’incontro con Primo Capital?
«Primo Capital e i suoi General Partner, tra cui il presidente Gianluca Dettori, ha proprio questo approccio verticale: la stessa filosofia che loro applicavano nel venture capital l’avevamo noi nel private equity. Ci siamo messi a tavolino e abbiamo studiato questo prodotto per due anni».
Quali le differenze tra un investimento in venture capital e uno in private equity?
«L’investimento in private equity è più veloce e meno rischioso. Più veloce perché l’intervallo di tempo standard tra entrate e uscite degli investitori è di cinque anni, mentre nel venture capital si arriva almeno ai dieci. Meno rischioso perché anche se non ci sono i ritorni stellari che possono verificarsi nel vc, sono comunque garantiti buoni ritorni. In questi tempi di prudenza diffusa, un prodotto del genere può piacere agli investitori».
In quali segmenti andrete a investire e perché?
«Ci sono quattro quadranti in cui si concentrano migliaia di piccole e medie imprese italiane: i medical device, cioè dispositivi medico-diagnostici, wearable e molto altro; l’industria farmaceutica intesa come l’insieme delle Pmi coinvolte nella supply chain (componenti del farmaco, packaging ecc) e nei servizi intorno al pharma (servizi regolatori e studi clinici); i private health service provider, quindi il mondo della sanità privata o privata convenzionata che in Italia pesa per il 30-40% della spesa sanitaria; l’animal health, un settore in cui finora non abbiamo mai investito ma che è in grande crescita».
Ci fa un identikit del settore sanitario?
«È un settore molto importante per il nostro paese. Ha una buona redditività, è anticiclico (ci si ammala indipendentemente da come sta andando l’economia) e con potenziale di crescita anche in Paesi che finora non erano interessati ai suoi prodotti. Nel pharma insieme alla Germania siamo uno dei due mercati più importanti in Europa sia come aziende che come produzione, nel medical device lo siamo insieme a Germania e Francia. Le aziende italiane sono molto orientate ai mercati esteri, esportano in media per l’80%».
Con che criteri sceglierete le aziende in cui investire?
«Cerchiamo Pmi sane, profittevoli e già presenti sul mercato che abbiano voglia di crescere. Aziende non solo in cerca di soldi ma anche di persone che parlino la loro stessa lingua».
Ci sarà un focus su investimenti ESG?
«Il nostro è un fondo ESG articolo 8 del Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR), il Regolamento europeo della finanza sostenibile. Le aziende nelle quali investiamo sono già impegnate sulla sostenibilità, soprattutto per la parte ambientale e sociale, un po’ meno sulla governance, a causa del fatto che sono spesso imprese familiari. Inoltre non sempre sono strutturate per tenere sotto controllo i parametri in modo scientifico».
Lato raccolta, come attirate gli investimenti?
«Siamo partiti dagli investitori istituzionali, che magari hanno tempi più lunghi nelle decisioni ma fanno tagli di investimento importanti. Ci rivolgiamo anche a family office e altri investitori professionali (casse previdenziali, fondazioni bancarie). La raccolta è iniziata e abbiamo raggiunto il first closing a 64 milioni di euro, sottoscritto dal Fondo Italiano d’Investimento, European Investment Fund e Fondazione Enpam. Gli obiettivi per gli investitori sono quelli standard del private equity: generare 2,5 volte il capitale investito e un IRR (internal rate of return) del 20-25%».