“Investire in Life science significa contribuire a migliorare la qualità della vita, e in alcuni casi a salvarla. I progetti su cui investiamo hanno un valore economico ma anche un grande valore etico e sociale”.
Laurea in ingegneria meccanica, MBA alla Luiss, Diana Saraceni si occupa da oltre 20 anni di venture capital. Ha cofondato prima 360 Capital Partners e poi, nel 2015, Panakès Partners. Una società che gestisce due fondi di investimento – “L’ultimo, da cui stiamo attivamente investendo, di circa 180 milioni di euro” – e ha portato a 22 il numero totale di partecipate in portafoglio. “Investiamo nelle scienze della vita: dispositivi medici, diagnostica, farmaci, digital health. E investiamo soprattutto in round di finanziamento da Seed a round B”.
Investire in imprese innovative in questo settore significa, per Saraceni, investire per le persone e con le persone. Perché se l’idea è importante, lo è ancora di più il team. “Un team forte è uno dei fattori più importanti per il successo dei nostri investimenti”.
Diana Saraceni, Co-Founder e Managing Partner di Panakès Partners, è la nostra investitrice del mese.
Cosa l’ha spinta a muovere i primi passi nel mondo dell’innovazione?
Forse l’essere cresciuta nel sistema scolastico francese. La Francia è il paese con i numeri di investimento in venture capital per società early stage più alti in Europa. E questo mi ha influenzata dirottandomi verso questo tipo di business.
Dopo diversi anni di esperienza nel settore della consulenza – Management Consulting in A.T. Kearney e Investment Banking di Lazard – ho cominciato a occuparmi di venture capital. Me ne occupo, ormai, da 23-24 anni.
Come nasce il suo interesse per l’innovazione e nello specifico per il Life science?
Quando ho lanciato, insieme a due soci, il progetto 360 Capital, il settore di investimento più trainante era il mondo del digitale. E in questa area facevamo venture capital. Mi appassionava l’innovazione disruptive. Da allora, da venture capitalist, ho continuato ad appassionarmi dei fenomeni di grande discontinuità tecnologica, passione che più recentemente mi ha portato a occuparmi dell’innovazione tecnologica nel mondo della salute, coniugando così la passione per l’innovazione all’idea di poter contribuire a risolvere, o se non altro ad alleviare, diverse malattie e condizioni disabilitanti.
In effetti, sostenere l’innovazione nelle scienze della vita significa investire nella salute. Voglio dire, non c’è solo un valore economico ma anche sociale.
Per me il valore etico, sociale è molto importante.
A dire il vero anche in altri settori, il venture capital è un tipo di investimento etico, sociale, perché la creazione di nuove aziende contribuisce allo sviluppo del territorio. Creare nuove aziende, mettere capitale nelle società affinché possano crescere e investire in ricerca e sviluppo di nuove tecnologie, significa creare nuovi posti di lavoro, posti di lavoro altamente qualificati, e contribuire a portare dei nuovi prodotti o dei nuovi servizi sul mercato che, come minimo, semplificano la vita delle persone.
Quando poi fai venture capital nel Life science – dove l’innovazione può cambiare la vita dei pazienti, alleviare il dolore, allungare la vita delle persone, magari salvarla – la componente etica è ancora superiore.
Investire in Life science significa fare investimenti a lungo termine: l’iter per far arrivare al mercato una nuova molecola o un nuovo dispositivo è lungo e costoso. Bisogna essere visionari, bisogna avere lungimiranza, bisogna avere intuito per le tecnologie di frontiera: capire che lo saranno prima che effettivamente lo siano?
Sì, sicuramente. Ma va tenuto conto che un VC non necessariamente investe il giorno in cui viene fondata una società o in cui viene depositato un brevetto. Si investe anche in corsa. E poi le exit in questo settore possono essere molto anticipate: in altre parole, non necessariamente si esce quando la società è profittevole, ma anche quando ha ancora il prodotto in sviluppo e non è ancora arrivato sul mercato. Quindi, dal punto di vista dell’investitore finanziario, i tempi sono molto più brevi di quelli necessari per portare un prodotto sul mercato.
Cosa guida una sua operazione di investimento?
Due sono le leve principali. Il team forte e dedicato è uno dei fattori più importanti per il successo dei nostri investimenti. Perché un team altamente competente non si mette su progetti early stage in cui non crede e se non ha valutato la solidità e la potenzialità dell’idea.
Altro elemento chiave, ovviamente, la piattaforma tecnologica e che tipo di problema si promette di risolvere. In altre parole, quale (unmet) medical need si prefigge di soddisfare.
Panakès Partners ha base a Milano, ma il vostro sguardo è rivolto al mondo?
Panakès Partners è una società di venture capital che investe nel settore medical e in questo settore in particolare è bene farlo a livello internazionale. Noi facciamo investimenti in tutta Europa e negli Stati Uniti. Ovviamente abbiamo un accesso privilegiato sull’Italia e una buona parte dei nostri investimenti sono su imprese innovative italiane.
Quali sono i trend del settore, quello che oggi attira di più i vostri investimenti e come sta evolvendo l’ecosistema?
Intelligenza artificiale e robotica sono alcuni trend del settore. Noi abbiamo appena fatto un investimento in una società tedesca che usa l’intelligenza artificiale generativa per l’individuazione di nuovi target farmacologici.
Nell’ambito della robotica abbiamo in portafoglio MMI che ha appena fatto un aumento di capitale di 100 milioni: un record italiano.
Destano poi molto interesse le innovazioni sul fronte della diagnostica, per esempio delle malattie neurodegenerative, e in oncologia dove l’unmet medical need, malgrado i recenti progressi, è purtroppo sempre molto significativo.
Sono tante, insomma, le aree su cui ci sono tantissime opportunità perché, purtroppo, nonostante l’innovazione nel campo della salute negli ultimi 20 anni abbia fatto dei progressi enormi, c’è ancora tanto da fare a beneficio dei pazienti.
Per quanto riguarda l’ecosistema italiano, in oltre 20 anni l’ho visto cambiare moltissimo. In Italia, grazie in particolare al lavoro di CDP, c’è stato uno sviluppo del settore tangibile: tanti gli investimenti di venture capital, tanti nuovi operatori, tante startup che hanno a disposizione strumenti diversi utili per il loro sviluppo.
Il suo investimento più recente?
Abbiamo investito in una società italo americana, Allotex, che ha raccolto 30 milioni di euro e ha sviluppato un “lenticolo”, ovvero un piccolo dispositivo impiantabile per correggere in maniera permanente la presbiopia. Il dispositivo è in fase di sviluppo clinico ed stato già testato su 100 pazienti dimostrando l’efficacia. Il Founder di Allotex ha fondato altre due società che sono diventate unicorni. E la presbiopia è un difetto della vista comune dell’invecchiamento. Abbiamo ritenuto quindi fosse un business molto interessante.