Nata su spinta di soggetti istituzionali e imprenditoriali presenti sul territorio locale e regionale, del mondo universitario, clinico, industriale e finanziario, la Fondazione Toscana Life Sciences è un ente non profit che opera dal 2005 con l’obiettivo di supportare le attività di ricerca nel campo delle scienze della vita e di sostenere lo sviluppo di progetti dalla ricerca di base all’applicazione industriale. La Fondazione ha sede a Siena, nella storica zona di “Torre Fiorentina”, dove Achille Sclavo fondò nel 1904 l’omonimo Istituto Sieroterapico e Vaccinogeno Toscano, e dove importanti multinazionali produttrici di vaccini oggi scelgono di localizzare le loro attività primarie di ricerca e sviluppo. Un ambiente di eccellenza, quindi, che si inserisce in un panorama regionale in cui le scienze della vita giocano un ruolo strategico.
Abbiamo chiesto a Fabrizio Landi, Presidente di TLS, di offrirci uno scorcio di questa industria così viva, ma anche così complessa e di darci un giudizio sulle startup chiamate a interpretare correttamente questa complessità.
Dottor Landi, quali sono i cambiamenti strutturali degli ultimi anni del settore life science?
«La grande rivoluzione attuale è la nascita delle terapie genetiche cellulari. Che sono diverse da ciò che è stata la farmacologia fino a venti o trent’anni fa. In passato si ricercava prodotti soprattutto di sintesi chimica che intervenivano su processi metabolici e biologici, favorendo la terapia. Parliamo di farmaci, quindi di molecole chimiche, in molti casi non esistenti in natura. Invece, da quando è stato sequenziato il genoma umano si è capito che una grandissima quantità delle malattie che colpiscono l’uomo, quelle degenerative e quelle storiche come il diabete, hanno una componente legata ad alterazioni genetiche unita a eventuali alterazioni derivate da influenze ambientali.
Ebbene, queste terapie intervengono sul malfunzionamento dei processi naturali che sono scritti nel nostro genoma, trasportando all’interno della cellula componenti RNA che vanno a modificarla. E così quella cellula ritorna a lavorare correttamente. Non è una terapia da reiterare nel tempo come avviene con i farmaci di sintesi chimica, ma è una terapia che, se funziona, interviene alla base del problema, dell’alterazione. Ed essendo prodotti biologici, l’unico modo di produrli è stimolare strutture viventi, batteri e pezzi di tessuto e modificarli geneticamente».
Quindi dal genoma, a cascata, cambia tutto?
«Certo, perché è emerso il paradigma della medicina personalizzata. Si è capito che il modo in cui un individuo vive una malattia, è la sua stessa storia, scritta nel suo genoma e in parte legata come quell’individuo è cresciuto. Quindi la medicina personalizzata è essenzialmente la medicina che parte dal genoma. In futuro, al momento della nascita, verrà sequenziato il genoma e, interpretandone i dati, saremo in grado di capire se quell’individuo svilupperà o meno determinate malattie. Sarà possibile indirizzare tutta la gestione della sua vita clinica in chiave preventiva e, se quella malattia dovesse comunque verificarsi, si potrà personalizzare il modo di trattarla. È il caso del vaccino antitumorale, che sarà somministrato a chi, avendo sviluppato un tumore, ha bisogno che il proprio sistema immunitario venga adeguatamente stimolato a produrre risorse interne per uccidere le cellule maligne».
Come giudica la ricerca e l’ecosistema di startup innovative in questo campo in Italia?
«L’Italia si colloca a un buon livello nella ricerca di base, ma è molto meno performante rispetto ad altri Paesi europei sulla capacità di trasformare questa ricerca in un prodotto davvero fruibile. Si pensi solo che la prima terapia cellulare approvata dall’FDA è proprio italiana, poi però questa terapia per una malattia rarissima, non è mai diventata prodotto. Oggi in Italia ci sono una manciata di startup che stanno lavorando a questo tipo di prodotti o terapie, un numero davvero esiguo rispetto a quanto avviene in altri Paesi europei e negli Stati Uniti. Ci imbattiamo sempre nella relativa incapacità di trasformare l’intuizione di un gruppo di ricerca universitario, del CNR, o di qualunque attività di una fondazione non profit in qualcosa che diventi spendibile sul mercato. Il dito va puntato sulla difficoltà del sistema ad attivare il trasferimento tecnologico. Un problema che precede quello del finanziamento. In questo momento, se una startup ha un’idea ad alto rischio ma giusta e credibile, non credo avrebbe difficoltà a trovare finanziamenti dal venture capital, sia quello privato sia quello para pubblico. Né tantomeno dai venture capital stranieri, perché ormai i fondi ragionano con una logica almeno europea, se non mondiale. Il vero problema sta a monte: il team di ricerca che decide di mettersi in gioco e creare una nuova azienda, molto spesso non ha la mentalità giusta per farlo. I nostri ricercatori non hanno la mentalità per fare sviluppo industriale perché manca, all’interno del nostro sistema universitario, la cultura di fare impresa innovativa».
Qual è dunque il ruolo di Toscana Life Sciences?
«Toscana Life Sciences per mestiere cerca dunque di aiutare questi attori a fare un brevetto, mette a disposizione laboratori per startup di area farmaceutica e biotecnologica. Offriamo servizi di supporto per eseguire la fase di ricerca e capire qual è il mercato potenziale di questa ricerca. Perché è talmente costoso sviluppare un farmaco, soprattutto sperimentarlo, che poi le aziende decidono di investire non tanto se c’è una semplice prospettiva di mercato, ma piuttosto se c’è la reale possibilità di un ritorno. Questo è un tema centrale, ma troppo spesso non contemplato nella cultura delle nostre startup. Qualcosa che invece non sfugge agli israeliani, agli americani e, in Europa, ai francesi. Nel giugno scorso è uscito un report dell’Eliseo (Francia) in cui è stato esplicitato che, a seguito dello stanziamento di 10 miliardi pubblici da parte del presidente Macron, il sistema delle startup è stato il primo generatore di nuovi posti di lavoro. Riporto ancora un altro esempio: il Paese europeo nel cui PIL la farmaceutica ha un peso maggiore è il Belgio. L’Italia è in assoluto il primo produttore di farmaci in Europa, ma il Belgio conta la più ampia produzione farmaceutica in percentuale sul suo Pil. Le sette provincie fiamminghe finanziano ogni anno, per decine e decine di milioni, un centro molto più grande di quello di TLS e in pratica conta su una TLS in ognuno dalle sette province. Strutture che generano tantissime startup che poi avranno successo e diventeranno aziende con sede in Belgio contribuendo all’economia nazionale. È chiaramente una scelta politica.
E in Italia allora?
«Nel corso degli anni, qualcosa è stato fatto anche nel nostro Paese con il finanziamento di CDP Venture Capital. Naturalmente c’è ancora molto da fare, perché le startup vengono ancora confuse con le PMI. Che in realtà hanno altri bisogni. Le nostre PMI hanno un problema alle volte tecnologico, ma non certo un problema di imprenditorialità. Eppure, i nostri vari Governi hanno sempre sostenuto le PMI, e non tanto le startup che invece avrebbero un ruolo ben più strategico. Gli startupper, infatti, sono dei veri disseminatori di innovazione tecnologica: creano l’azienda, la vendono e poi ricominciano il ciclo. Talvolta aiutano gruppi di ricercatori a mettere a terra l’innovazione. In Israele professori universitari fondano nuove startup, poi realizzano una exit e poi diventano funzionari del ministero della ricerca. In pratica, lo stesso governo viene direttamente coinvolto. L’Italia, dunque, deve fare di più, almeno sulla scorta di quanto fanno i nostri cugini francesi».