Digital Health è un’espressione un po’ generica che si riferisce a un’ampia gamma di tecnologie utilizzate per curare i pazienti e raccogliere e condividere le informazioni sulla loro salute. Parliamo cioè di applicazioni mobili, dispositivi indossabili, telemedicina, big data, robotica e intelligenza artificiale: dispositivi software e hardware che, a loro volta, si traducono in cartelle cliniche elettroniche, aderenza alla terapia via smartphone, ricette elettroniche, interfacce vocali, ma anche semplicemente in ospedali senza carta.
In un momento in cui il sistema sanitario italiano sta affrontando una drammatica limitatezza di personale e risorse finanziarie, ecco allora che le tecnologie digitali diventano grandi protagoniste perché sono in grado di migliorare l’efficienza operativa, i tempi diagnostici, i risultati clinici e l’esperienza di staff e pazienti. Di questo enorme tema si è discusso a “Progettare la Digital Health”, tavola rotonda promossa da Indicon, giovedì 5 ottobre, durante la Digital Week meneghina. Si è trattato di un evento ricco di interventi, con ospiti che hanno illustrato, ognuno dalla propria angolazione professionale, le gigantesche potenzialità offerte dalla tecnologia digitale in ambito medico e sanitario.
La madre di tutte le sfide: curarsi meglio
«Le applicazioni digitali in campo sanitario rappresentano certamente una grande opportunità perché il digitale permette di personalizzare la cura, a casa del paziente stesso» esordisce Lisa Noja, consigliere di Regione Lombardia. «Consente cioè di evitare l’ospedalizzazione puntando tutto sulla domiciliarità. È uno strumento che, solo apparentemente in maniera paradossale, aumenta l’interattività tra medico e paziente. In realtà grazie all’interazione digitale gli operatori sanitari sono in un certo senso più responsabilizzati e umani. Certo, si dovrà compiere un grosso sforzo per l’alfabetizzazione informatica soprattutto lato paziente che dovrà essere aiutato a cogliere l’utilità di questo sistema digitale. Poi è fondamentale l’intervento della politica. Il covid ha prodotto una grande accelerazione all’innovazione in senso digitale, ma è stato un lavoro più che altro emergenziale, talvolta spot. Ora non dobbiamo farci trovare più impreparati».
Tenere il passo con l’evoluzione tecnologica: l’esempio delle terapie digitali
«La ricerca scientifica e tecnologica è sicuramente più veloce della politica e degli stessi operatori sanitari» aggiunge Paola Minghetti, Professore ordinario di tecnologia, socioeconomia e normativa dei medicinali presso l’Università degli Studi di Milano. «Ma oggi è fondamentale riuscire a cogliere e sfruttare tutta la potenzialità del digitale. Che, in sanità, ha applicazioni davvero vaste. Per far sì che si passi alle app terapeutiche, per esempio, dobbiamo essere sicuri che siano affidabili con un rapporto rischio/beneficio accettabile. Questo passaggio quindi prevede studi clinici, esattamente il tipo di validazione usata per i medicinali. Bisogna poi che questi dispositivi siano resi prescrivibili e spesabili. Perché, ci tengo a sottolineare un aspetto fondamentale, le app sono dispositivi con vera e propria finalità medica, non sono un semplice supporto terapeutico». «Cito tre app autorizzate dalla FDA: una per la gestione del diabete, una per la terapia cognitivo comportamentale per dipendenza da oppiacei, e una per migliorare il deficit d’attenzione nei bambini. Sono prodotti che hanno avuto lo stesso iter di validazione di un farmaco attraverso studi clinici. Questo negli Usa. Nel nostro Paese manca invece l’infrastruttura normativa per poter portare finalmente tali prodotti sul mercato. Da una parte le aziende devono investire in studi locali, ma è anche vero che le aziende investono volentieri se vedono che c’è realisticamente un possibile spazio di mercato. In Italia a dirla tutta c’è ancora ben poco, se confrontato per esempio con la Germania che ha un’impostazione normativa in grado di definire gli aspetti della commercializzazione e della rimborsabilità di questa classe di dispositivi. Da noi, di contro, c’è moltissima confusione anche tra le figure decisionali. Chi distribuisce questi prodotti? A quale prezzo? E come lo si rimborsa? Il privato, l’industria, gli accademici e i politici sono chiamati a rispondere a questi quesiti».
E intanto il privato trova nuove soluzioni
«In Humanitas, gruppo ospedaliero privato, siamo molto focalizzati sulla cura, ma anche sulla ricerca» spiega Victor Savevski, Chief Innovation Officer e AI Center Director presso Humanitas. «L’innovazione per noi riguarda l’intera esperienza del paziente che deve essere ottimale. Negli anni abbiamo lanciato oltre 50 prodotti digitali e piattaforme multimediali per la salute, siti web, app e terapie digitali. Oggi abbiamo sul mercato circa 20 soluzioni con cui cerchiamo di coprire un’ampia fetta di popolazione. Si tratta di progetti digitali esterni allo stretto ambito clinico: cerchiamo di dare più informazioni possibili ai cittadini, poi certamente abbiamo soluzioni specifiche per i pazienti di Humanitas. Più recentemente, alla guida Humanitas AI Center, mi sto poi concentrando sulla ricerca e lo sviluppo di applicazioni cliniche basate su intelligenza artificiale e apprendimento automatico. Ma in generale tutta l’innovazione deve avere un valore per chi la usa. Noi come ospedale guardiamo molto a ciò che accade negli Usa dove ci sono strutture con risorse e budget enormi. Cerchiamo di mutuare il loro modello di business e adattarlo alla nostra realtà che sicuramente è ben diversa. In ogni caso, fatte le debite proporzioni tra le due culture e i due mercati, le esigenze cliniche e di percorso dei pazienti americani sono fondamentalmente uguali a quelle dei pazienti italiani. Se poi confrontiamo l’Italia con Paesi come UK, Francia, Germania, il risultato è impietoso: da noi serve più infrastruttura e un ecosistema più collaborativo. Per esempio i ricercatori italiani sono talentuosi, ma spesso preferiscono lavorare e risiedere all’estero. Un gran peccato».
La Digital Health pensata in chiave di medicina generale e le sue ricadute più importanti
«Già trent’anni fa i medici di medicina generale si erano posti il problema di come trattare le cartelle cliniche» racconta Ovidio Brignoli, vicepresidente SIMG. «Noi medici di famiglia, d’altronde, ci occupiamo della salute del paziente sotto il profilo bio-psico-sociale. E già trent’anni fa la cartella era concepita e orientata per una rappresentazione complessa e dinamica della vita del paziente. E la tecnologia digitale era già presente. Tutti i medici di medicina generale sono, gioco forza, informatizzati. Oltretutto il medico, grazie all’informatica e al digitale, può oggi avere una visione di un’intera popolazione di pazienti, non solo del singolo: si possono infatti strutturare percorsi su specifici cluster di popolazione che hanno un determinato problema di salute.
Il digitale dà strumenti al medico, ai pazienti e poi abilita le famose terapie dtx (software e hardware) che però hanno ancora bisogno di prove di efficacia clinica. Il covid ha impresso un’accelerazione a tutte quelle pratiche che prima erano ferme: è stato possibile, per esempio, fare teleassistenza e teleconsulti con colleghi specialistici. I contatti sono diventati più veloci e fluidi. Con notevoli vantaggi anche per il medico: il suo telefono squilla di meno, la sua agenda elettronica è sempre aperta e ha ottimizzato il suo tempo clinico. È migliorata pure la sua qualità di vita con meno rischio di burnout. Manca però ancora una tariffazione dei servizi di telemedicina ed è tutto a carico del paziente.
In definitiva la medicina digitale sarà sempre più presente nella medicina generale, ma il medico in persona continuerà a esistere». «L’informatica e il digitale» aggiunge Paolo Mocarelli, già Professore Ordinario di Biochimica Clinica (Università Milano-Bicocca) e Primario Servizio di Patologia Clinica Ospedale Pio XI Desio-Milano «intervengomo per rispondere al dolore (cioè alla malattia) nel più breve tempo possibile. Just in time, questo è il grande contributo dell’evoluzione tecnologica. Il tempo è la variabile fondamentale che può fare davvero la differenza».
«Con la telemedicina» aggiunge Alessandro Caviglia, Direttore Programmazione Negoziata Regione Lombardia «possiamo intendere televista, teleconsulto, teleassistenza e anche telemonitoraggio. Ebbene tutta questa digitalizzazione ha di fatto generato un iperspazio che va governato e gestito. Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) prevede, nella Missione 6 (Salute), 2 miliardi di euro per le case di comunità, la casa come primo luogo di cura (e quindi la telemedicina), ma anche gli ospedali di comunità e la messa in sicurezza degli ospedali stessi. Nell’ambito di questo complesso percorso, Regione Lombardia ha puntato su una programmazione negoziata, una programmazione cioè collaborativa con gli enti locali. Con la programmazione negoziata abbiamo gestito oltre cinque miliardi di euro nella sola regione Lombardia. Questo modo di programmare in comune con gli enti locali territoriali ha inoltre attratto investimenti privati».
«La telemedicina nel SNN è un tema complesso» dichiara Sergio Pillon, vicepresidente e responsabile delle relazioni istituzionali AiSDeT, Associazione Italiana della Sanità Digitale e Telemedicina. C’è bisogno di autorganizzazione: bisogna cioè fissare regole, ma lasciare anche certi gradi di libertà. Non significa affatto perdere il controllo. L’autorganizzazione è un flusso continuo di energia. E così dovrebbe essere la trasformazione digitale nella medicina. Nell’ambito della telemedicina, poi, ci sono tantissime questioni pratiche da affrontare: la sua eleggibilità clinica, per esempio, è a giudizio insindacabile del medico, che, in base alle condizioni cliniche e sociali del paziente, valuta se proporre al paziente una visita di controllo in modalità televisita. Saranno, inoltre, valutate sia l’idoneità sia la dotazione tecnologica di cui il paziente dispone (come smartphone con caratteristiche adeguate all’istallazione di specifiche app per la televisita), e la capacità di utilizzo degli appositi kit per la telemedicina. In quest’ultimo caso può anche essere necessario un sopralluogo per verificare le caratteristiche fisiche, impiantistiche ed igieniche del domicilio del paziente. Contestualmente andranno verificati gli aspetti connessi con la digital literacy del paziente e/o del caregiver al fine di valutare l’appropriatezza del dispositivo e il grado di autonomia nell’uso.
Trattamento dei dati sanitari, telemonitoraggio e terapie oncologiche personalizzate: la frontiera più avanzata
«Risolvere il problema della privacy» spiega Davide Zaccagnini, founder e Ceo AgoraLabs «non è solo un problema regolatorio, ma l’essenza stessa del trattamento dei dati sanitari. Del resto, in un certo senso, più si hanno informazioni su una persona, più quella persona è vulnerabile. Ma è anche vero che la sanità funziona sui dati: l’informazione è ciò su cui i medici lavorano e su cui prendono decisioni. Ora, con l’entrata in vigore del Gdpr si è creato uno iato tra l’aspetto computazionale, cioè l’algoritmo di elaborazione dei dati, e l’aspetto legale. L’Unione Europea non è però stata ferma e ha sovvenzionato progetti (tra cui la mia AgoraLabs) e la ricerca per far sì che il dato possa rimanere sotto controllo del titolare, ma allo stesso tempo fluire. La tecnologia ha costruito quel ponte, quel collegamento tra tutela della privacy e circolazione delle informazioni. È ovviamente un lavoro di deep tech che oggi permette di proteggere e utilizzare contestualmente il dato. Per le organizzazioni che possiedono i dati è importante riconoscere oggi questa enorme opportunità».
«AstraZeneca, insieme al Policlinico Gemelli di Roma e al partner tecnologico Innovation Sprint, sta progettando Azimuth, una soluzione di telemonitoraggio per ottimizzare, attraverso un percorso di digital health, l’assistenza ai pazienti con insufficienza cardiaca» racconta Stefania Marcoli, Service Design Lead AstraZeneca. «Il percorso assistenziale del paziente con insufficienza cardiaca prevede normalmente diversi step, dai trattamenti di fase acuta, al follow up del paziente in fase cronica. Questo richiede uno stretto dialogo tra cardiologi ospedalieri e medicina di prossimità, soprattutto una volta che il paziente rientra a casa, dopo la dimissione da un centro ospedaliero di terzo livello. Ma al momento questo complesso percorso è molto frammentato. È emersa poi la necessità di dotare il paziente di uno strumento che lo ingaggi maggiormente nel suo percorso di cura. Un fatto tutt’altro che trascurabile dal momento che spesso l’insufficienza cardiaca non è correttamente percepita dallo stesso paziente come una patologia grave e questo genera una scarsa aderenza alle terapie.
Da queste esigenze è stato creato, utilizzando un processo basato su Service Design e sviluppo Agile, un percorso integrato che utilizza anche componenti digitali dedicato a questo tipo di pazienti. Abbiamo cioè realizzato un prototipo di app sul quale abbiamo condotto studio di user acceptance e user experience, coinvolgendo 30 pazienti con insufficienza cardiaca. La novità di questo progetto risiede nel suo approccio incrementale e agile. La piattaforma sviluppata consente ai medici di monitorare in tempo reale lo stato di salute del paziente, anche quando non è fisicamente in ospedale, garantendo una presa in carico più personalizzata per i pazienti con scompenso cardiaco».
«Medendi» interviene infine Giorgio Pasetto, Ceo dell’azienda «è una società privata con sede a Modena e New York che offre, attraverso una piattaforma online, servizi diagnostici avanzati e indirizzamento terapeutico a beneficio dei pazienti oncologici.
Proponiamo ai pazienti test genetici che permettono la personalizzazione della cura e questo abbiamo affiancato la proteomica, uno studio che ci dà la possibilità di selezionare in partenza quali farmaci non funzionano su un determinato paziente in base a una certa iper espressione di una data proteina.
Inoltre, stiamo lavorando sull’analisi del residuo minimo di malattia (MRD) che individua l’insorgenza di recidive prima che siano visibili a diagnostiche strumentali come TAC, PET, RMI, a tutto vantaggio dell’outcome per il paziente. In oncologia, infatti, il tempismo è fondamentale, sia nella diagnosi iniziale sia nel diagnosticare recidive di malattie. E sappiamo che la precocità della diagnosi aumenta, e di parecchio, la sopravvivenza. L’Mrd rivoluzionerà il normale approccio al mondo oncologico. In questo momento abbiamo lanciato in Europa questo progetto pilota con pazienti e oncologi. Stiamo integrando tool di Ai nei casi più complessi e nelle cure sperimentali».