Secondo l’ultimo rapporto rilasciato da The European House Ambrosetti (TEHA) “Il ruolo dell’ecosistema dell’innovazione nelle Scienze della Vita per la crescita e la competitività dell’Italia” (scarica il documento qui) nell’ambito della decima edizione del Technology Forum Life Sciences, l’ecosistema italiano ottiene risultati importanti. Ma non permette al nostro paese di competere con il vertice dei paesi europei. Stando al TEHA Life Sciences Innosystem Index, l’indice composito che misura la competitività degli ecosistemi di ricerca e innovazione nelle Scienze della Vita dei Paesi dell’Unione Europea, su 23 paesi UE l’Italia si colloca al 9 posto, con un punteggio pari a 3,59. Pur posizionandosi nella fascia dei Paesi con performance medio-alte, è ancora distante dalle prime posizioni, occupate da Danimarca (6,02 punti), Germania (5,73 punti) e Belgio (5,63 punti).
L’indice in questione è composto da 4 dimensioni e 13 KPI (Key Performance Indicator) analizzati lungo 8 anni, per un totale di 2.392 osservazioni.
Fame di “capitale umano”, ma ai vertici per export e pubblicazioni
L’ecosistema della ricerca e dell’innovazione nelle Scienze della Vita è migliorato, e lo testimonia il fatto che l’Italia ha mantenuto il 7° posto dal 2021 al 2024 tra gli stati che sono più cresciuti. Senza contare che nel 2023, anno difficile per gli investimenti Venture Capital, nel complesso diminuiti del 36,5%, passando da 2,1 a 1,3 miliardi – un calo dovuto al rialzo dei tassi di interesse -, il settore delle Scienze della Vita è risultato il secondo più attrattivo dopo l’ICT, registrando investimenti di 323,3 milioni di euro nel triennio 2021-2023 e una crescita del 79,2% rispetto al 2022.
Ma serve di più. A cominciare dalle persone: occorrono più laureati nelle materie Life Sciences, in cui siamo al 14 ° posto in Europa. Chi fa scienza in Italia la fa bene: nel 2023, 35 ricercatori italiani sono stati infatti premiati o hanno ricevuto importanti riconoscimenti, ma solo poco meno della metà di essi lavora in Italia. La fuga di talenti ha diverse cause, fra le maggiori delle quali vi sono la scarsa meritocrazia e la bassa remunerazione, oltre alle poche strutture d’eccellenza nel settore e alla difficoltà di accedere al mondo accademico.
Nel complesso, il numero di persone che lavorano nel settore resta sottodimensionato: l’Italia è al 15° posto in Europa, con solo l’1,7% di occupati – contro, l’8,5% della Danimarca – sul totale di quelli inseriti nella manifattura, ma ha un miglior risultato in termini di produttività, posizionandosi al 6°posto.
I due punti di forza principali dell’ecosistema italiano sono però l’export di prodotti farmaceutici e medicinali e il numero di pubblicazioni nel settore, ambiti dove l’Italia è rispettivamente al 4°(con un valore di 52 miliardi di dollari nel 2023) e al 2° posto.
Gli esempi di Svizzera, Israele e Stati Uniti
Alla base delle diverse situazioni di alcuni paesi stanno scelte e strategie ben pensate per il settore delle Scienze della Vita. Lo spiega bene Ennio Tasciotti, Director Human Longevity Program, IRCCS San Raffaele Full Professor, Advanced Medical and Surgical Technologies, San Raffaele University Scientific Advisor, Community Life Sciences 2024.
La Svizzera ha consolidato la propria reputazione in materia investendo nell’istruzione e nella ricerca con l’istituzione di centri di ricerca accademica in biotecnologia, farmaceutica e dispositivi medici. Accademia, industria e governo, con l’avvio di politiche fiscali favorevoli, lavorano insieme secondo un progetto di lunga visione, attirando così talenti e capitali provenienti da tutto il mondo, facilitando anche il trasferimento tecnologico.
Il caso di Israele poggia su presupposti diversi: qualificandosi come “startup nation”, Tel Aviv ha investito sulle persone, sul capitale umano appunto, sostenendo e promuovendo la ricerca traslazionale con incentivi e finanziamenti dedicati. Il paese ha infatti la più alta percentuale di PIL investita in Ricerca e Sviluppo. Questa stretta collaborazione fra pubblico e privato ha creato la situazione ideale per la nascita di molte startup che sono via via cresciute fino ad avere un impatto globale. Terra di oltre 30 unicorni (startup che valgono oltre 1 miliardo di dollari), Israele è per questo anche nota come la “Silicon valley mediorientale”.
Gli Stati Uniti, invece, hanno puntato sulla creazione di un sistema di partenariato fra pubblico e privato, investendo molto sia nella ricerca di base che su quella applicata, favorendo il trasferimento tecnologico. A tale scopo, enti come il National Institutes of Health (NIH) e la Food and Drug Administration (FDA) con ingenti finanziamenti accelerano il passaggio da laboratorio a mercato. Le università di ricerca di spicco, insieme a un settore privato dinamico e a un ecosistema di venture capital solido, hanno portato gli Usa a primeggiare in tutti i settori di avanguardia. Fra questi, la diagnostica molecolare, l’editing genetico, l’immunoterapia e la medicina.
E l’Italia cosa può fare?
Il potenziale è alto ma ci vuole, rileva Tasciotti, capacità di creare un ecosistema favorevole e soprattutto il coraggio di valorizzare, con una visione di lungo termine, una cultura dell’innovazione. I talenti ci sono ma bisogna saperli trattenere. Il settore privato da una parte e la ricerca innovativa assieme all’imprenditorialità dall’altra sono gli elementi su cui fare leva per affrontare la sfida.
L’emergere di nuove professioni legate alle nuove tecnologie come l’AI, il machine learning, big data, robotics , implica la necessità di ripensare o pensare daccapo percorsi formativi che stiano al passo con i tempi, in grado di fornire gli strumenti giusti a chi vuole dedicarsi a questi ambiti. Pubblico e privato, accademia e industria debbono lavorare insieme al fine di avere un adeguato giusto trasferimento tecnologico.
“I governi devono spiegare i rischi e come minimizzarli”
Si è detto molto su quanto sia importante il ruolo dei governi nella promozione di contesti normativi, fiscali ed economici al fine di sostenere il settore delle Scienze della Vita. Ma può la politica influenzare la direzione della ricerca? Considerata ormai d’importanza strategica, quanto può un governo entrare nel merito? Il Covid-19 e gli ingenti stanziamenti economici voluti dai governi per scoprire un vaccino efficace hanno costituito un precedente.
INNLIFES lo ha chiesto al professor Gregg L. Semenza, Premio Nobel per la Medicina 2019 per le scoperte su come le cellule percepiscono e si adattano alla disponibilità di ossigeno.
«Penso che ci sia un problema sociale più profondo. Il fatto che la ricerca sia politicizzata non ha senso. Tutti debbono poter stare bene, perché le infezioni virali iniziano ovunque. L’Ebola può scoppiare in Africa, ma arriva in Europa e negli Stati Uniti. Quindi deve essere un esercizio mondiale integrato. Non possiamo lasciare che ripercussioni politiche spaventino chi governa. Al momento non considero l’azione dei governi come interferenze pericolose. Credo però che sia necessaria un’azione sull’educazione del pubblico, di modo che sia in grado di capire quali sono i problemi e come questi influenzano le loro vite. In particolare con l’AI, al momento questa opportunità di far capire al grande pubblico è stata usata per scopi distruttivi che non costruttivi. Le persone hanno paura. Penso che i governi debbano invece spendersi per far capire quali sono i rischi e come possono essere minimizzati».