Sulla carta, il panorama italiano della digital health sembra fare passi da gigante. Più della metà delle istituzioni del Belpaese (57%) può accedere alle cartelle cliniche elettroniche e al Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE). Il dato è contenuto nell’indagine dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) “Exploring the digital health landscape in the WHO European Region”. Non solo. La strategia italiana sulla digital health risulta presente nell’83% delle regioni, il sistema informativo sanitario digitale nel 79% e la strategia della telemedicina nel 78%. Ma non è tutto oro quel che luccica. «Sappiamo bene che il fascicolo sanitario elettronico di fatto è inutilizzato, però da un punto di vista formale esiste», dice Sergio Pillon, Vice Presidente AiSDeT (Associazione italiana di Sanità Digitale e Telemedicina).
Questo cosa significa?
«Sono un ricercatore e mi occupo soprattutto di temi che portano alla produzione di studi e rapporti. La prima cosa che va letta è la metodologia. In questo rapporto è descritta nella parte iniziale ed è chiaro il limite dell’indagine. L’OMS ha incaricato i governi dei Paesi presi in esame di indicare le persone per fornire i dati. Di conseguenza non sono parametri oggettivi ma solo opinioni di incaricati dai governi».
Tornando al discorso precedente: cosa ne pensa del dato sul Fascicolo sanitario elettronico (FSE)?
«Il nostro governo si è limitato a descrivere l’aspetto tecnologico, non ha detto nulla su cittadini, clinici e pazienti».
Un esempio pratico?
«È come se io dicessi che il 57% dei cittadini e cittadine possono prendere l’autobus. Questo non significa che gli autobus funzionino. Il primo grande errore di questo rapporto sono le modalità di rappresentazione. L’Oms è un’organizzazione sovranazionale ma, sostanzialmente, finanziata dalle nazioni. A me sembra una “simpatica” descrizione dei vari Paesi».
Nel panorama della sanità digitale non mancano le sfide da affrontare. Tra queste, l’interoperabilità tra i diversi sistemi digitali. A che punto siamo in Italia?
«Cominciamo dall’alto: la vera sfida è curare. In questo momento c’è una fuga di medici e infermieri perché, e questo dato emerge da diversi rapporti, il digitale viene proposto correttamente come una soluzione ai problemi che i sistemi sanitari stanno affrontando. Il digitale si compone di due aspetti».
Quali?
«Il primo è l’insieme degli strumenti di conference call sanitari. All’interno non c’è solo la possibilità per medici e infermieri di parlare e sentirsi a distanza con i pazienti, ma la possibilità di avere i dati disponibili mentre si parla. E affinché siano disponibili, devono essere elettronici. Attualmente, tutto ciò che abbiamo conservato nei nostro cassetto non serve a nulla. La parola d’ordine è la disponibilità digitale dei dati e la conseguente possibilità di analisi e confronto delle informazioni durante la visita.
Qui entra in gioco l’interoperabilità…
«Esatto. Serve archiviare i dati non solo in modalità interoperabile ma anche compatibile. In questo modo possiamo lavorare sulla patient experience, il percorso del paziente. Serve ripensare il percorso e il rapporto medico-paziente».
In questo contesto, uno degli aspetti fondamentali è la standardizzazione. In che modo le nuove tecnologie possono avere un ruolo strategico?
«La standardizzazione è una delle criticità da affrontare. Banalmente può accadere che, parlando di esame del sangue, a volte si scrive “globuli rossi”, altre volte GR o RBC. Facendo un altro esempio, un medico può scrivere lesione fibroso-calcifica all’origine della carotide, un altro collega potrebbe scrivere placca fibrosa con componente di calcio all’origine di una carotide interna. In questi casi l’AI (Intelligenza Artificiale) può darci un supporto importante. Ma questo non è l’unico problema. I file digitalizzati devono essere anche organizzati. È inutile la semplice digitalizzazione ad esempio quando il paziente inserisce i propri referti in formato digitale in una chiavetta in modo disorganizzato. Ciò che fa la differenza è la standardizzazione».
Un esempio pratico?
«Se dovessi andare al pronto soccorso e in quel momento allo specialista serve l’ultimo elettrocardiogramma e l’elenco dei farmaci che sto prendendo, perché non è sempre detto che io lo ricordi, è necessario avere i file standardizzati per poterli recuperare in modo semplice».
Uno degli aspetti negativi messi in luce nel report è la mancanza di adeguati sistemi di monitoraggio delle agenzie nazionali sui progetti e sulle politiche regionali. In che modo possiamo superare queste criticità?
«Questo mi sembra uno slogan. L’Italia è composta da 20 regioni diverse per dimensioni e abitanti. Non è facile ragionare in termini di regioni. Recentemente è stato evidenziato un problema importante che riguarda i percorsi digitali dei pazienti per specialità».
In cosa consiste?
«Costruire percorsi clinici basati sulle buone pratiche e le esigenze scientifiche, ad esempio le donne in gravidanza o i pazienti con diabete di tipo 1 che includano la televisita, il teleconsulto e tutti gli strumenti della telemedicina, supportati dalla analisi dei dati, per migliorare le cure secondo le risposte dei pazienti. Quindi, non è tanto l’azione politica di governance delle regioni, ma l’azione di governo clinico che può portare alla cura potenziata dal il digitale».
Il panorama della sanità digitale è in rapida evoluzione. Le nuove tecnologie hanno dato una forte spinta al settore, specialmente con la nascita e lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale. Un cambiamento positivo che offre molti vantaggi in termini di diagnosi, prevenzione e ricerca. Per supportare la rivoluzione tech servono sforzi economici, normativi e di formazione. La strada è ancora lunga e molte saranno le sfide da affrontare in futuro.