Come impiegare le tecnologie digitali nella sanità? C’è unanime consenso sulla loro utilità e la convenienza a investire su di esse. Non c’è tecnico, esperto del settore, docente universitario e politico che non sottolinei l’importanza e la necessità di avere una sanità “più digitale”. Ma aldilà degli slogan e di concetti che sono spesso teorici e non avvalorati da evidenze, cosa c’è di vero?
Generalizzando e semplificando possiamo affermare che, finora, le tecnologie digitali sono state introdotte a supporto dei processi sanitari. L’obiettivo era ed è tuttora quello di eliminare la carta e trasferire in digitale i dati e le informazioni che si producono durante l’assistenza e la cura dei pazienti. Le ricette, le prenotazioni, i referti sono diventati elettronici senza però cambiarne la struttura né gli aspetti organizzativi. Il modo di fare sanità non è cambiato con l’introduzione delle tecnologie digitali; ciò che è diverso, rispetto al passato, è il mezzo con cui si producono e condividono le informazioni.
Per molti questo è già un risultato importante e degno di nota. La possibilità di avere dati, calcolare indicatori, con gli indubbi vantaggi rispetto alla carta, è l’obiettivo finale, la svolta che permetterà di migliorare la sanità, risolvendone le principali criticità. Non ci si deve quindi stupire se alcuni esperti (o pseudo tali) e politici affermino che con il CUP o il Fascicolo Sanitario Elettronico si riducono le liste di attesa; certamente i dati sono utilissimi per comprendere e monitorare la domanda e l’offerta ma, da soli, non risolvono il problema.
Il fenomeno poi dell’Intelligenza Artificiale e della sua necessità di utilizzare dati per addestrarne gli algoritmi ha ulteriormente amplificato questa percezione. C’è l’implicita aspettativa che l’IA possa da sola migliorare i problemi e le criticità che l’intelligenza naturale non riesce a risolvere. Una sorta di bacchetta magica del ventunesimo secolo.
Il potenziale delle tecnologie digitali è invece molto più ampio. È possibile, come è avvenuto in tutti i settori dove possiamo effettivamente parlare di “trasformazione digitale”, ripensare i processi sanitari in virtù delle caratteristiche e delle funzioni che le tecnologie digitali possiedono, modificando il modo con cui si curano e assistono le persone. Il primo ambito su cui applicare questo “cambio di paradigma” sono i percorsi di cura che vedono oggi una sequenza di azioni e attività svolte da professionisti, in modo indipendente e senza alcuna sinergia, nello stesso modo con cui si faceva trent’anni orsono, con la sola variante carta – digitale.
Vediamo un esempio. Oggi i medici di famiglia prescrivono visite ed esami senza alcun supporto che li guidi nell’ottimizzare gli accessi e i tempi per gli assistiti. Quando un paziente ha un problema si rivolge di norma al suo medico che talvolta, in prima istanza, prescrive degli esami diagnostici. Se il medico di famiglia ritiene che il paziente abbia necessità di una visita specialistica la prescrive indirizzandolo a un ambulatorio. Il paziente si reca dallo specialista portando con sé i suoi esami o magari il medico vi accede utilizzando il Fascicolo Sanitario Elettronico. Spesso lo specialista necessita di ulteriori esami che prescrive direttamente o in altri casi rinvia il paziente dal suo medico di famiglia per farseli prescrivere. Il paziente prenota gli esami, li esegue, quindi ritorna dallo specialista per ottenere finalmente la sua terapia.
Non sempre in realtà era poi necessario l’intervento dello specialista, magari il medico di famiglia, opportunamente guidato, avrebbe potuto gestire il caso in autonomia. Queste situazioni comportano un numero di visite inutili, allungamento dei tempi e disagi per i pazienti.
Come impiegare le tecnologie digitali per ripensare questi percorsi? Si potrebbero realizzare dei Percorsi Diagnostici Integrati (qualcuno aggiunge anche Digitali ma ritengo che ormai qualsiasi cosa che riguarda la sanità debba essere per forza di cosa digitale). Questi percorsi, definiti per patologia, devono essere basati su protocolli che prevedano i criteri per comprendere se il paziente necessita di uno specialista (triage) e la relativa priorità, le modalità per gestire in autonomia il caso, gli esami che devono essere eseguiti prima che il paziente si rechi dallo specialista o che venga iniziata la terapia. In aggiunta al triage deve essere disponibile una modalità di condivisione del caso clinico con lo specialista che, in modalità asincrona, possa guidare il medico di famiglia nella formulazione della diagnosi e della terapia. Quando è necessaria la visita dello specialista sarebbe utile definire dei percorsi Fast Track per accelerarne la presa in carico e l’inizio della terapia quando la prescrizione del farmaco è limitata allo specialista.
Si tratterebbe, in altre parole, di impostare un meccanismo di cooperazione clinica tra medici di famiglia e specialisti ospedalieri che potrebbero dedicare una parte del loro tempo al supporto dei primi, con due vantaggi: un numero minore di viste, dal momento che i pazienti arriverebbero già con tutti gli esami e le informazioni per formulare la diagnosi e predisporre la terapia; un maggiore filtro da parte della medicina generale che potrebbe farsi carico dei casi più semplici.
Utilizzare le tecnologie digitali per rompere l’isolamento della medicina di famiglia, rivedere i criteri di ingaggio degli specialisti, ottimizzare i tempi per i pazienti. Una rivoluzione possibile solo con il digitale, quello utile. Ma che richiede la voglia e la forza di modificare lo status quo; ed è qui che, forse, casca l’asino …