La legge Golfo-Mosca nel 2011 è nata per rendere più equilibrata la rappresentanza dei generi all’interno delle società quotate. La parità di genere tuttavia è un obiettivo che ancora si fa fatica a perseguire, non solo in ambito professionale, ma anche a livello familiare e sociale.
Per approfondire le cause di questo, delineare la fotografia attuale e immaginare le prospettive future abbiamo intervistato la Prof.ssa Alessia Mosca, prima firmataria della legge assieme alla senatrice Lella Golfo, e protagonista attiva sul tema della parità di genere.
Professoressa, iniziamo con una domanda di scenario per inquadrare il tema. Qual è il quadro attuale se parliamo di parità di genere e di welfare?
«È un momento interessante per parlare di questi temi, perché siamo reduci da alcuni mesi durante i quali abbiamo visto come la questione sia stata rimessa in discussione, soprattutto negli Stati Uniti. Lì il dibattito è partito prima, a seguito della retromarcia di alcune grandi società a partire dal 2023. Scelte emblematiche in particolare guardando ai grandi passaggi che erano stati fatti e agli investimenti fatti fino a quel momento. Il taglio di team e finanziamenti in D&I sembrano aver azionato apparentemente una marcia indietro.
Bisogna tuttavia indagare quali sono le motivazioni in una prospettiva ampia. L’America sta conoscendo una iper-ideologizzazione di tantissime tematiche. Quindi in realtà è sbagliato dare una lettura superficiale di certi passi indietro. Scelte di questo tipo comunque restano un segnale che ci dice che non c’è mai niente di scontato e le conquiste che sono state fatte non sono perenni».
Qual è la situazione invece in Europa?
«In Europa la situazione è diversa, perché il tema della parità di genere è ancora molto introiettato, sia da un punto di vista del discorso pubblico, sia dal punto di vista delle azioni messe in campo a livello istituzionale e delle aziende private. L’Italia in particolare, in questo senso, non è un Paese che ha fatto retromarcia – almeno rispetto all’attenzione da parte delle imprese».
Come mai in Italia c’è più consapevolezza su questi temi? A cosa lo attribuisce?
«Forse perché noi eravamo più indietro e quindi avevamo un gap importante da recuperare rispetto ad altri Paesi. Credo inoltre che questa maggiore attenzione da parte delle aziende provenga dall’intuizione, molto corretta, espressa chiaramente dall’ex presidente del Consiglio Mario Draghi. In un suo discorso recente, l’ex premier ha avuto modo di sottolineare i criteri olistici e trasversali di tutti i finanziamenti del PNRR che hanno veramente contaminato persino il modo e i processi delle aziende. Da noi, le condizionalità per ricevere i finanziamenti, legate anche a dei parametri ESG e di diversità di genere, sono state un elemento di grande impulso. Come è stato il fatto che, collegato al PNRR, la certificazione di genere non solo dà vantaggi fiscali, ma offre premialità quando si partecipa a dei bandi. C’è stata molta più reattività da parte delle aziende di quanto si pensasse, tant’è che all’inizio si immaginava di arrivare a 800 aziende certificate entro il 2026 – cioè nella fase pilota della certificazione di genere. Nella realtà a fine 2024 siamo già a oltre 2.000 aziende certificate. Credo anche questo sia un segnale da cogliere in modo positivo».
Una fotografia positiva quindi quella dell’Italia?
«Nonostante questi risultati non possiamo dimenticare che l’Italia è in una situazione di gravissimo ritardo su tantissimi indicatori. Seppure ci sia stata questa reazione importante e ci siano elementi positivi sul tema generale dell’occupazione, su tanti altri temi non progrediamo.
In Bocconi è stato presentato a metà ottobre uno studio redatto nell’ambito dal nuovo osservatorio sulla governance e sulle donne executive, che di nuovo fa una fotografia simile a quella degli ultimi 15 anni. Le percentuali di donne executive restano sempre ancorate poco sopra il 15%.
Questo ci dice che, per esempio, su questo fronte non è stato fatto alcun progresso. Se nel corso di oltre un decennio il cambiamento è marginale, vuol dire che affrontare e colmare questa urgenza non è percepita come una necessità».
Qual è l’azione che è mancata per dare questa spinta e quali sono gli attori che dovrebbero portarla?
«C’è bisogno di un concorso di azioni, non c’è un’unica soluzione che da sola possa modificare la situazione. Occorre un approccio olistico. Quando si sente che un tema è necessario e urgente, bisogna metterci tutti gli sforzi possibili, si devono muovere tanti soggetti e avviare molte azioni in contemporanea».
Dove è necessario intervenire maggiormente tra i tanti aspetti legati alla parità di genere?
«Trovo ci sia ancora molto da fare nel modificare la percezione e il ruolo della donna all’interno delle responsabilità familiari. Anche culturalmente, questa è una zavorra contro la quale continuiamo a scontrarci. Perché non sarà mai possibile avviare un vero empowerment se poi tutto il comprato della cura resta una responsabilità femminile. E non ci potrà mai essere una equal pay se non c’è questo riequilibrio.
Dobbiamo avere un occhio rivolto alle generazioni più giovani, senza però dimenticare anche quelle più mature. Le donne sono “in mezzo”: magari non tutte hanno figli, ma tutte hanno genitori, che stanno invecchiando molto di più rispetto al passato. Il nostro Paese è tra quelli che invecchiano più di tutti al mondo. Al contempo non abbiamo nessuna struttura in grado di alleggerire questa responsabilità gravosa principalmente per le donne.
La situazione diventa più pesante se consideriamo che i bambini passano almeno una parte della loro giornata a scuola e, poi, negli anni diventano generalmente sempre più indipendenti. Per gli anziani le alternative sono le (poche e spesso costosissime) case di cura o una persona dedicata. Chi se lo può permettere assume – con fatica – personale specializzato. Ma per la maggior parte, lo sappiamo benissimo, va a finire che anche nella seconda parte della vita lavorativa una donna si trova di nuovo davanti al bivio di dover scegliere se continuare a lavorare o occuparsi dei propri cari».
Serve quindi un diverso modo anche per gli uomini di essere parte della società?
«Penso che questo sia il grande elemento mancante della discussione che abbiamo avuto fino ad oggi. Non possiamo continuare a ragionare in silos per cui ogni argomento, come la maternità e i servizi, resta solo una questione per le donne. Un fattore viene dimenticato: gli uomini.
Dobbiamo iniziare a discutere del ruolo di una leadership diversa, di momenti della vita diversi; calibrare il mercato del lavoro, a includere diverse modalità così che anche per gli uomini ci possano essere momenti in cui fare scelte diverse senza che questo infici la propria identità e la propria mascolinità».
Quanto tempo ci vorrà per questo cambio di cultura?
«La nostra responsabilità è sostenere questa voglia di cambiamento attraverso un sistema che guardi più al futuro che al passato, che accolga e potenzi queste istanze più presenti nelle nuove generazioni. Nel rapporto presentato, l’elemento più positivo è il fatto che l’unico spezzone anagrafico in cui c’è maggiore equilibrio di ruoli di maggior livello è quello dei più giovani».
Oggi in Italia c’è una grande attenzione per il tema diversity e inclusion. Come stiamo procedendo secondo lei su questo tema?
«Trovo ingeneroso dire che non siano state fatte policy di potenziamento della diversity. Credo inoltre stia diventando sempre più chiara la necessità di un approccio olistico.
Questo significa non pensare che un’azione sia sufficiente a risolvere o accelerare processi per cui sono necessarie diverse componenti. Possono non essere sbagliate le azioni, quello che però risulta limitante è l’approccio: non in tutti i contesti le stesse iniziative valgono allo stesso modo. Non dimentichiamo in oltre che serve tenere insieme e gestire tutti i vari pezzi».
Come fare per scardinare gli stereotipi?
«Io credo che uno degli elementi più attuali oggi passi attraverso lo scardinamento di alcuni stereotipi. Tra tutti, per esempio, la credenza radicata per cui le ragazze sono meno portate per la matematica. L’Italia è il 77esimo paese su 79 per gap di competenze scientifico-matematiche tra i paesi OCSE. Vuol dire che c’è un’impostazione sia culturale che di modalità di insegnamento non adatta e che lascia indietro un pezzo importantissimo di popolazione, non solo in termini di opportunità di lavoro ma proprio in termini di piena cittadinanza.
Sono sempre più convinta che oggi, con l’avvento massiccio delle tecnologie digitali sia ancora di più una lettura della realtà non solo da un punto di vista di categorie umanistiche ma anche di categorie scientifiche. Rischiamo di avere dei cittadini di serie A e di serie B. Banalmente abbiamo visto con il Covid cosa significava non capire un minimo di statistica, sappiamo bene quanto importante sia saper identificare che cos’è una percentuale se uno vuole avere padronanza delle proprie finanze e così via.
Ritengo che oggi, con il potenziale sviluppo proprio dell’intelligenza artificiale, le donne potrebbero avere un ruolo ancora più importante.- Sempre più esperti infatti ci dicono come lo sviluppo delle nuove tecnologie avrà bisogno di competenze creative, capacità critiche nei confronti di ciò che le macchine possono calcolare e computare. E non si può applicare bene la creatività, l’empatia, la sensibilità, tipicamente associate se non c’è un linguaggio comune che passa anche attraverso la comprensione di nozioni scientifiche di base.
Proprio in questa direzione con Ersilia Vaudo abbiamo fondato “Il Cielo Itinerante”, associazione che certa di esporre alle STEM i ragazzi (ma soprattutto le ragazze) delle zone italiane a più alta incidenza di abbandono scolastico. Perché crediamo che per vedere un cambiamento effettivo nel medio periodo si debba iniziare passando da lì».