«La diagnosi di autismo è uno tsunami che travolge tutto». È il 2010 quando l’autismo irrompe nella vita di Nico Acampora, educatore ed esperto di progettazione sociale che ha fondato PizzAut, un laboratorio di inclusione sociale e una pizzeria gestita interamente da persone autistiche. E così la sua storia familiare è diventata una storia plurale: una storia esemplare di inclusione. Nel ripercorrerla, Acampora evidenzia l’importanza dell’autonomia lavorativa. «Il lavoro fa miracoli, ma troppe aziende preferiscono pagare sanzioni anziché assumere persone autistiche».
Come nasce il progetto?
«Il progetto tecnicamente nasce in una notte buia e tempestosa in cui sveglio mia moglie e le dico che dobbiamo aprire un ristorante gestito da persone autistiche».
E lei cosa risponde?
«Nico dormi che non sai nemmeno cucinare».
Eppure poi quell’idea è diventata realtà…
«Sì, nel 2021, sulla scia di quell’idea nata nel 2017. Vede, una diagnosi di autismo scombina tutto, ti fa cadere il mondo addosso. Quando hai un figlio autistico smetti di fare tante cose. Smetti per esempio di andare al ristorante, perché nei ristoranti ci sono luci non adatte, rumori improvvisi e stimoli olfattivi fastidiosi, o semplicemente perché tuo figlio potrebbe mettersi a correre e il suo comportamento non sarebbe gradito al ristoratore. Ma smetti anche di andare a trovare gli amici, perché qualsiasi situazione nuova può metterlo fortemente a disagio. Allora noi abbiamo cominciato a invitare gli amici a casa e a cucinare per loro e anche mio figlio, in quelle occasioni, si cimentava in cucina. Allora ho pensato che se poteva farlo lui, che ha un autismo severo, perché non altri. E così ho iniziato a studiare il mondo della ristorazione».
E così è nata la pizzeria PizzAut?
«In realtà all’inizio è nato un assaggio di PizzAut. Chiedevo a dei ristoratori di prestarmi il loro ristorante per una sera, per far lavorare i ragazzi. Alla terza richiesta, la proposta è stata accettata ed è stato un successo. L’esperimento allora è andato avanti. Io osservavo i ragazzi e le ragazze a lavoro, scoprivo i loro limiti e per ogni limite cercavo delle soluzioni che poi abbiamo applicato nei ristoranti PizzAut».
Perché in effetti sono due le pizzerie nate dal progetto: la prima nel 2021 a Cassina de’ Pecchi, e la seconda nel 2023 a Monza. Perché PizzAut è una palestra di autonomia per i ragazzi e le ragazze autistiche?
«Lavorare in un ristorante consente di imparare a relazionarsi con gli altri e accogliere gli imprevisti in maniera tutelata, e gestirli senza entrare in crisi. Le persone che lavorano da PizzAut diventano autonome nella gestione di operazioni che sono standardizzate e, in quanto tali, delle zone di comfort. Noi ne abbiamo create diverse: per esempio, nei nostri tavoli non ci si siede a capotavola, in modo che il cameriere possa servire sempre da quel lato. Abbiamo investito sull’insonorizzazione, in modo che anche quando il ristorante è pieno i rumori sono molto attenuati, e sulla pavimentazione: piastrelle con colori diversi facilitano gli spostamenti dei ragazzi. Sono alcuni esempi di accorgimenti che rendono il loro lavoro più autonomo e sicuro. PizzAut è tutto questo ma quello che facciamo non è terapia, è lavoro: io creo posti di lavoro e i ragazzi imparano un mestiere. Imparano a fare i camerieri e i pizzaioli, in un luogo attrezzato per loro e gestito con procedure pensate per loro».
PizzAut nasce con la sfida di nutrire l’inclusione: come si è arrivati dalla pizzeria all’AutAcademy?
«AutAcademy nasce da un’esigenza concreta. Man mano che aumentavano i posti a sedere, ci siamo trovati di fronte all’esigenza di strutturare meglio la formazione dei ragazzi e delle ragazze. Allora abbiamo stretto un accordo con la Fondazione Mazzini di Cinisello Balsamo che gestisce un istituto alberghiero e così è nato il nostro percorso formativo con corsi che si svolgono in aula, ma soprattutto all’interno dei nostri ristoranti».
E dalla ristorazione al progetto per l’autonomia abitativa: di cosa si tratta?
«È una “palestra” di autonomia abitativa per i ragazzi che fanno il doppio turno (pranzo e cena) e il pomeriggio non tornano a casa. A poche centinaia di metri dal ristorante di Cassina de’ Pecchi abbiamo due appartamenti dove i ragazzi sperimentano la vita autonoma: imparano a fare la lavatrice, il letto, a pulire il pavimento, a dormire senza mamma e papà. Anche se non è la loro abitazione, perché di fatto vivono con le loro famiglie. A Monza invece, avendo costruito il ristorante da zero, abbiamo creato degli spazi destinati a questo scopo all’interno della struttura stessa. Perché il “dopo di noi” è adesso: noi affrontiamo l’ansia del “durante noi” con il lavoro, la dignità, l’autonomia».
Parlando di autismo e lavoro, quanto è importante l’autonomia lavorativa e come supportarla?
«Quando parliamo di autismo parliamo di uno spettro molto ampio di disturbi che si presentano in modo molto variabile. Quindi ci sono ragazzi che non possono lavorare, altri che potrebbero, ma non lavorano perché nessuno crea le condizioni per farglielo fare. E così, in Italia su 600mila persone autistiche quelle inserite nel mondo del lavoro sono pochissime, nonostante ci sia una Legge che obbliga le aziende ad assumere una persona con disabilità ogni 15 dipendenti. Di fatto troppe aziende preferiscono pagare una multa anziché farlo: solo la Lombardia per questo ha incassato 81 milioni di euro quest’anno.
Sulla scia di PizzAut qualcosa si sta muovendo, ma ancora lentamente. Troppo lentamente rispetto al ruolo straordinario che ha il lavoro per le persone autistiche: aumenta le competenze sociali e relazionali, la fiducia in se stessi, la percezione del sé, l’autonomia, l’autostima. Il lavoro fa miracoli. Ci sono ragazzi con mutismo selettivo che facevano fatica a parlare e ora prendono le comande a tutti i clienti; ragazzi che prima non toccavano le persone e ora si abbracciano; ragazzi che facevano fatica a stare in una situazione strutturata e oggi lavorano otto ore al giorno».
Il lavoro insomma è uno strumento potentissimo, ma c’è ancora uno stigma da superare. In altre parole le persone autistiche possono lavorare bene se messe nelle condizioni di farlo.
«Esattamente. Alcune persone autistiche potrebbero lavorare bene se messe nelle condizioni di lavorare. Ma le aziende fanno ancora fatica a pensare di investire in questo senso: nel creare le appropriate condizioni sociali, relazionali e ambientali. L’inclusione lavorativa è la nostra battaglia: la portiamo avanti assumendo direttamente, e cercando di dialogare con altre aziende affinché creino un setting adatto a far esprimere le potenzialità delle persone autistiche».
Per esempio?
«Si può porre attenzione all’impianto illuminotecnico, in modo che l’illuminazione non sia invasiva; ai suoni, in modo da evitare suoni e rumori molto alti; alla comunicazione aumentativa per le persone non verbali; si possono seguire corsi di formazione per imparare a relazionarsi con le persone autistiche».
Dall’inizio del progetto PizzAut a oggi cosa è cambiato nella società rispetto alla conoscenza dei disturbi dello spettro autistico?
«Sono cambiate tantissime cose. Basti pensare che prima di autismo si parlava solo il 2 aprile, oggi invece se ne parla molto più spesso e diverse ATS si stanno attrezzando con nuclei specialistici. Addirittura il Presidente della Repubblica l’anno scorso nel messaggio alla nazione ha parlato di autismo e di PizzAut. Però, anche se è cambiato molto, questo molto è ancora poco. Perché ancora troppo poche sono le persone autistiche assunte in Italia, troppo pochi sono gli insegnanti di sostegno che sanno qualcosa di autismo, e la presa in carico è estremamente lenta perché ci sono pochissimi specialisti, fra logopedisti e neuropsichiatri, rispetto alle reali necessità».
Che dire della ricerca scientifica e dei progressi fatti sul fronte terapeutico?
«Credo che i progressi scientifici fatti siano davvero pochi, perché l’autismo è una condizione e non una malattia, non si cura farmacologicamente, e quindi gli investimenti in ricerca sono esigui. Se fosse una malattia da curare con una pillola, sono convinto che ci sarebbero molti più investimenti perché ci sarebbe un ritorno su quegli investimenti. E dal punto di vista terapeutico, l’Italia è all’età della pietra: ci sono terapie acclarate dal punto di vista scientifico, come le terapie ABA, che lo Stato italiano non prevede e così molte famiglie contraggono debiti per poterle seguire».
E allora che messaggio lanciare ai decisori politici?
«Un messaggio molto chiaro. Se non volete fare le cose per il bene dei nostri figli, fatelo per il bene delle vostre casse. Perché quando una persona non ha un’adeguata terapia, non ha un lavoro e non ha un adeguato supporto, prima o poi finisce in un centro diurno o in un istituto, con costi elevatissimi per lo Stato. Dai 50 ai 200mila euro per persona autistica. Se invece lavora, non solo non costa nulla, ma diventa un contribuente: versa le tasse».