Il digitale è un formidabile strumento a sostegno della sostenibilità, anzi un suo grandissimo acceleratore. Tuttavia, anche piccoli comportamenti abilitati dalla tecnologia digitale, come inviare una email o fare una videochiamata, possono essere fonte di emissione. Quindi il digitale è o non è sostenibile? A questa domanda ha tentato di rispondere Indicon con l’evento “La sostenibilità è anche digitale”, un incontro-evento, tenutosi lunedì 9 ottobre, durante la Milano Digital Week. Si è trattato di una tavola rotonda che ha riunito esperti e aziende per discutere il vasto tema della sostenibilità, partendo proprio da ciò che noi consideriamo, a torto o a ragione, sostenibile.
«Le grandi moli di dati che alimentano per esempio i social network» spiega Sergio Amati, Direttore generale IAB Italia «finiscono in data center alimentati da energia. Insomma, anche un social network è in qualche modo energivoro. Eppure, l’inquinamento digitale è percepito in maniera diversa rispetto a quello delle fabbriche. Per questo IAB Italia si è impegnata per sensibilizzare la popolazione ad assumere comportamenti digitali responsabili, lanciando un progetto specifico: ZED (Zero Emission Digital) è una piattaforma che punta a rendere la rivoluzione digitale più ecologica. Abbiamo pensato a un nome che in qualche maniera strizzasse l’occhio alla generazione “zeta”, che usa tanto il digitale, mostra sensibilità ambientale, ma è meno attenta all’impatto del digitale sull’ambiente. Il progetto ZED punta a promuovere comportamenti più virtuosi come, per esempio, evitare di inviare un’email inutile (con scritto magari semplicemente “Ok” o “Grazie”). Facendo così coesistere trasformazione digitale e transizione ecologica».
«Secondo me» interviene Alessandro Lanza, Direttore Fondazione Eni Enrico Mattei e Direttore scientifico della Milano Digital Week «la domanda di fondo è: il digitale è compatibile con la crisi climatica in atto? Per rispondere a tale quesito bisogna capire innanzitutto come viene prodotta l’energia, se da fonte combustibile o rinnovabile. Eppoi è necessario inquadrare il problema nel concetto cardine di produttività. Al giorno d’oggi i computer vantano una elevatissima produttività a parità di energia consumata, sono cioè macchine estremamente efficienti. Quindi, è vero, da una parte i data center sono energivori, dall’altra però i computer e il digitale in generale permettono di compiere varie operazioni in un’unità di tempo e di energia davvero ridotta. Ne consegue un’unica certezza: non è per niente facile raccogliere informazioni sull’impatto ambientale del digitale, è un tema davvero complesso in cui vanno considerate moltissime variabili».
Sostenibilità a tutto tondo: il ruolo delle aziende
«Doorway è una piattaforma digitale che favorisce e veicola investimenti privati verso aziende innovative» racconta Antonella Grassigli, Co-Founder and Ceo di Doorway. «Costruiamo una connessione tra capitali privati e quelle iniziative imprenditoriale che possono avere uno sviluppo sostenibile. Ovviamente intendiamo la sostenibilità a 360 gradi: vogliamo finanziare quegli imprenditori che hanno conoscenza dell’impatto dei nuovi modelli di business sul tessuto sociale e sull’ambiente. Perché l’innovazione fa rima con sostenibilità e se i capitali privati sono indirizzati sulle giuste iniziative, si può creare un effetto leva straordinario. La misurazione dell’impatto aiuta a capire la valutazione dell’azienda che andremo a finanziare con i nostri investitori. I business angel usano la sostenibilità come criterio per capire come investire. Ricordiamoci che il capitale sa attendere, è paziente e preferisce appoggiare quelle realtà saldamente impostate sulla sostenibilità. E che a tempo debito daranno i loro frutti. Anche perché questo aiuta a minimizzare il rischio dell’investimento.
Uno dei problemi è che non esiste un protocollo universale per misurare la sostenibilità: noi abbiamo un nostro metodo perché abbiamo ideato un report, una sorta di tool per far sì che l’azienda metta la lente sulla sostenibilità del proprio modello di business nel lungo periodo e introduca un efficace sistema di compliance».
«È vero» si inserisce Omar Fulvio Bertoni, Ceo di LifeGate Way, acceleratore rivolto alle startup sostenibili «è difficile monitorare la sostenibilità di una start up non ancora sul mercato. In uno stadio più avanzato è chiaramente più facile perché vengono definiti obiettivi primari e un framework di sviluppo. Poi sarà onere dell’imprenditore decidere quale priorità dare a tutti gli obiettivi fissati. Perché, diciamolo chiaramente, quando un imprenditore avvia la propria attività deve dare delle priorità e non sempre la sostenibilità è tra queste. Noi cerchiamo di aiutarlo a dosare le risorse disponibili nell’ottica di un breakeven e cerchiamo di indirizzare i kpi verso la sostenibilità. Lo affianchiamo anche nell’individuare tutti i possibili stakehoder principali. Spesso le nostre start up hanno già delle metriche, ma noi cerchiamo di dar loro un contributo alla crescita mettendo a disposizione tutta l’esperienza e il network costruito in anni di attività di LifeGate, offrendo consulenza per lo sviluppo di un modello di business sostenibile, per la comunicazione, l’endorsement della community, l’open innovation. Noi non ricerchiamo soluzioni tattiche, ma qualcosa di lungo periodo. LifeGate Way punta a supportare concretamente e a far connettere tra loro startup che hanno l’ambizione di cambiare il mondo nel rispetto delle persone e del Pianeta, in modo sostenibile. Lo scopo è costruire una rete di aziende di successo, che adottino il modello delle benefit corporation e portino innovazione e modelli sostenibili di crescita nei loro settori».
La sostenibilità deve essere misurabile in modo standard, altrimenti non esiste
«Neutralia» spiega Claudia Lubelli, Marketing Business Development Manager dell’azienda «è una società di consulenza indipendente che offre servizi per la misurazione, la riduzione e la compensazione delle emissioni di CO2. Il nostro obiettivo è quello di supportare le organizzazioni a integrare gli impegni per il clima all’interno dei loro programmi di sviluppo per il raggiungimento della piena neutralità̀ delle loro emissioni di carbonio.»
«Ma non si può fare sostenibilità senza gli strumenti corretti» precisa Michele Milan, ingegnere ambientale del team di Neutralia. È fondamentale cioè avere un obiettivo di sostenibilità all’interno di un periodo di riferimento, in un’unità funzionale. Le norme per misurare la sostenibilità esistono: lo standard internazionale ISO 20121, per esempio, fornisce i requisiti per la realizzazione di eventi secondo principi di sostenibilità e si basa su tre principi dello sviluppo sostenibile: etico-sociale, economico e ambientale. Eppure, nonostante ci sia uno standard di riferimento internazionale, i linguaggi della sostenibilità a livello geografico sono spesso diversi e frammentati. La sostenibilità di un’azienda realizzata secondo la normativa italiana potrebbe non essere adeguata o dover essere adattata rispetto agli standard previsti in un paese diverso dall’Italia».
«Infine, per evitare il rischio “greenwashing”» conclude Milan, «la sostenibilità deve essere misurabile. In altre parole, non si può pensare di fare sostenibilità se non si rilevano i dati relativi ai risultati utilizzando strumenti attendibili e certificati. Un progetto di sostenibilità è innanzitutto un progetto di efficienza e deve necessariamente passare attraverso il confronto e il posizionamento rispetto a valori di riferimento presenti nel mercato. L’azienda deve quindi ottenere risultati che la rendano comparabile con i propri competitor. Ecco, quindi, l’importanza di applicare la sostenibilità secondo metodi riconosciuti, rappresentativi e attendibili. La sostenibilità che non si misura con l’applicazione di regole e standard ufficiali non si può definire tale. Sarà solo greenwashing, cioè ecologismo di facciata costruito su azioni che non incidono realmente nel business aziendale e sulla comunicazione».