Permettere alle chirurghe di sviluppare appieno le proprie potenzialità. Promuovere un ambiente lavorativo inclusivo e in grado di garantire rispetto, crescita e soddisfazione professionale e umana. Incoraggiare la leadership femminile. Con questi obiettivi è nata nel 2015 l’Associazione Women in Surgery Italia. Ne parliamo con Isabella Frigerio, chirurga specializzata in chirurgia oncologica del pancreas e attualmente in forze nell’Unità Operativa di Chirurgia Epato-Bilio-Pancreatica dell’Ospedale Pederzoli a Peschiera del Garda.
Perché ha deciso di fondare l’Associazione Women in Surgery Italia?
«L’Associazione nasce dalla necessità di affrontare una situazione che, pur evolvendo, rimane ancora legata a vecchi schemi. Le donne in sala operatoria sono sempre più presenti, ma il mondo chirurgico continua a funzionare secondo un modello maschile. C’è un forte bisogno di rivedere le modalità di lavoro, di valorizzare la diversità nella professione e di promuovere la progressione di carriera».
Ci racconti l’episodio che ha portato alla nascita dell’associazione.
«In effetti l’idea di fondare WIS Italia ha preso vita dopo un complesso intervento di chirurgia pancreatica, condotto da un’equipe interamente al femminile. Io come chirurga senior, affiancata da una collega più giovane, la Professoressa Gaya Spolverato, che è poi diventata mia partner in questa avventura. Al termine dell’intervento, ci siamo guardate e ci siamo dette: qualcosa è cambiato. Era il 2015, e da quell’esperienza è nata la consapevolezza che fosse giunto il momento di mettere un punto, di mettersi all’opera per preparare un contesto formativo e lavorativo pronto ad accogliere una nuova generazione di chirurghi e chirurghe».
Com’è cambiata la situazione da allora?
«Il numero di chirurghe è in progressivo aumento e oggi, dopo quasi dieci anni, la presenza femminile in sala operatoria ha raggiunto il 50%. Tuttavia, sebbene ci sia una maggiore consapevolezza riguardo alle dinamiche discriminatorie, queste non sono scomparse. Anzi, la discriminazione si è fatta più subdola, più difficile da dimostrare ma altrettanto dannosa. Ci sono ancora molte situazioni tossiche da risolvere, ma le nuove generazioni di chirurghe sono più consapevoli e pronte a non accettare compromessi, denunciare episodi di mobbing o a cercare opportunità all’estero quando qui viene preclusa la strada per motivi che esulano dalle capacità».
Nel 2021 è stata pubblicata una fotografia delle donne in chirurgia in Italia. Cosa è emerso da quel lavoro?
«Lo studio pubblicato su JACS ha confermato ciò che nel 2015 era solo la nostra percezione: la discriminazione esiste a tutti i livelli, dalla scelta della specialità fino alla progressione di carriera. È comune sentire dire a una giovane donna “non fare chirurgia, è un lavoro da uomini”, oppure vederla relegata a mansioni non chirurgiche nonostante la specializzazione. Parlando poi di leadership, la situazione è ancora più accentuata: circa il 5% delle posizioni apicali in chirurgia sono occupate da donne».
Quali sono le forme di discriminazione più comuni oggi?
«Oggi parliamo di “microaggressioni”, forme sottili ma persistenti di discriminazione. Come, per esempio, escludere una collega dall’attività in sala operatoria, precluderle la partecipazione ai congressi, non riconoscerne il valore scientifico o intellettuale. Queste forme di discriminazione sono difficili da dimostrare, ma non per questo meno gravi. Non dimentichiamo le micro-aggressioni a sfondo sessuale, i contatti fisici non richiesti, le molestie… La sala operatoria è un ambiente di per sé complesso e stressante dove la tensione emotiva a volte viene utilizzata come giustificazione a comportamenti non adeguati».
È indubbiamente necessario (anche) un cambiamento culturale: quanto gli uomini sono alleati nella battaglia che state portando avanti in sala operatoria?
«Il cambiamento culturale è essenziale e sì, i chirurghi devono essere nostri alleati. La discriminazione di genere non riguarda solo le donne, ma l’intera qualità del servizio sanitario. Se una donna viene esclusa dall’eccellenza solo perché donna, si penalizza tutto il sistema. C’è una crescente consapevolezza tra gli uomini, ma il passaggio all’azione è ancora difficile Ancora in molti minimizzano episodi ancora frequenti, trincerandosi dietro il “Era solo una battuta” o “Non intendevo”. È fondamentale che gli uomini prendano posizione di fronte a episodi di discriminazione e supportino attivamente le colleghe, promuovendone il talento chirurgico e il percorso».
Di fatto la chirurgia è stata a lungo un baluardo maschile. Perché?
«Sangue, stress, tempestività nel prendere le decisioni. Tutto questo, storicamente, è stato associato a un terreno di gioco maschile, frutto di un enorme stereotipo di genere che ha precluso la sala operatoria alle donne. Questo è un errore: la capacità di affrontare situazioni complesse non ha nulla a che fare con il genere. A questo si aggiunge il fatto che le donne sono spesso le sole responsabili delle cure domestiche e dell’accudimento dei familiari, incombenza difficilmente conciliabile con una carriera totalizzante come la chirurgia. Le nuove generazioni tuttavia sono già pronte ad affrontare la “genitorialità” come un impegno da condividere nella coppia, passo indispensabile per sostenere la presenza femminile in questo contesto. È necessaria quindi una profonda e strutturata trasformazione dell’ambiente lavorativo, è fondamentale la valorizzazione della diversità nel team chirurgico, la creazione di strutture di supporto alla genitorialità fino a scardinare gli stereotipi che ancora ostacolano la carriera delle donne».
A proposito di parità di genere e di ambienti lavorativi che valorizzino tutti i talenti, ormai è riconosciuta l’importanza della diversità nel team anche per migliorarne la performance.
«Assolutamente sì. Ma c’è ancora tanto da fare affinché la constatazione dell’importanza della diversità si traduca in team e contesti di lavoro veramente inclusivi. La diversità è un valore trasversale che migliora la qualità del lavoro, la soddisfazione del team e la qualità delle decisioni. Uno studio canadese pubblicato sul British Journal of Surgery ha dimostrato, per esempio, che la presenza di più donne nei team chirurgici, tradizionalmente popolati da uomini, migliora gli esiti per i pazienti. Questo sottolinea l’importanza della diversità non solo in termini di equità, ma anche di salute pubblica. La diversità è un valore assoluto: in natura è sinonimo di sopravvivenza. Dobbiamo imparare dalla natura. Diversità in sala operatoria significa diversità di punti di vista, di modalità di affrontare le situazioni, più chance di venire a capo di una situazione complessa, di gestire pazienti complessi. In ambito manageriale sanitario poi, la diversità è un punto di forza riconosciuto: ci sono dati ormai molto interessanti che dimostrano come l’aumento della diversità nel management ospedaliero aumenti la produttività della struttura, migliori l’efficientamento tra ricoveri e dimissioni e in generale una serie di parametri che definiscono la performance ospedaliera».
Bisogna quindi puntare l’acceleratore al fine di aumentare la rappresentanza femminile nella leadership in sanità in generale e in chirurgia in particolare?
«Sì, perché una leadership deve essere rappresentativa della comunità che serve. Se così non fosse, alcune necessità, alcuni bisogni e alcune richieste di chi è sottorappresentato non verrebbero percepite e quindi non risolte. La diversità nella leadership permette di rispondere meglio alle esigenze dell’intero gruppo. Ecco perché è fondamentale promuovere il percorso di accesso alla leadership per le donne in chirurgia seguendo semplicemente i principi delle pari opportunità e della meritocrazia».
Anche per questo è stata tra le firmatarie del manifesto Donne Leader in Sanità?
«Sì, abbiamo ideato questo manifesto che abbiamo portato in visione al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella perché, se è chiaro che si deve partire dal basso per preparare alla leadership, è necessario il supporto delle Istituzioni per garantire un percorso di accesso alla leadership».
Del resto, il contesto politico e il terreno culturale che la classe politica crea sono importanti per perseguire l’obiettivo della parità di genere nella nostra società. Ma se proprio la politica minimizza le disparità e le discriminazioni sistematiche, non si supportano fattivamente determinate istanze…
«Il contesto politico è cruciale. E non basta fare leggi sulla parità di genere se non si lavora anche per sensibilizzare la popolazione sull’importanza di queste tematiche. Se il governo non affronta attivamente il problema, di fatto rema contro tutti gli sforzi delle associazioni. La politica deve essere un alleato indispensabile, altrimenti rischiamo di minare anche i traguardi già raggiunti. Basta guardare intorno a noi, un diritto acquisito non è garantito in eterno, va difeso».
E a proposito di associazioni, negli anni ne sono nate diverse che si occupano di queste tematiche. Qual è l’importanza di fare rete?
«La collaborazione tra associazioni è fondamentale e, in fondo, è naturale. Perché tutte noi lavoriamo per il riconoscimento e la tutela dei diritti di uguaglianza di genere, come parte dei diritti fondamentali dell’uomo. Una battaglia che accomuna per esempio Women in Surgery a Leads-Donne Leader in Sanità, Valore D, Inclusione Donna… Associazioni con cui condividiamo obiettivi e modalità d’azione».
Cambiando argomento, si parla di chirurgia in codice rosso: la chirurgia sta diventando sempre meno allettante come professione?
«Non è solo un problema della chirurgia. Fare il medico in generale è sempre meno allettante a causa del sovraccarico di lavoro e dei contratti ai minimi storici e fra i più bassi in Europa. È una professione molto demanding, che richiede sacrifici e anni di studio, e per essere attrattiva deve offrire prospettive di carriera e retribuzioni adeguate. Se non cambiamo rotta, rischiamo di compromettere la stabilità del nostro sistema sanitario».
Come vede il futuro per le nuove generazioni di chirurghe?
«Io ho 50 anni e sento la responsabilità di mostrare alle nuove generazioni di chirurghe che la strada verso la realizzazione professionale è possibile. È nostro dovere fornire loro gli strumenti per affrontare questo percorso senza dover rinunciare ad altre importanti dimensioni della vita. Iniziative come il mentoring che Women in Surgery promuove in collaborazione con l’Università di Padova sono nate proprio per questo: preparare le giovani chirurghe al mondo del lavoro con un bagaglio di conoscenze e competenze che noi non avevamo».