«Esistono grosse differenze biologiche tra uomo e donna a livello cardiovascolare. Le donne hanno un cuore più piccolo, vasi sanguigni più ridotti, e il sistema vascolare risponde diversamente ai fattori di rischio che favoriscono l’aterosclerosi. Gli estrogeni, per esempio, hanno un ruolo protettivo che cambia drasticamente con la menopausa, portando a un aumento del rischio cardiovascolare». Partendo da queste premesse, Anna Vittoria Mattioli spiega perché sia fondamentale una medicina genere-specifica. La chiave, dice, per migliorare la presa in carico dei pazienti è una medicina sempre più personalizzata. E la medicina di genere è un esempio da manuale di medicina sartoriale.
Anna Vittoria Mattioli è docente al Dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita dell’Alma Mater Università di Bologna e da anni si occupa di ricerca nell’ambito della prevenzione cardiovascolare, con particolare attenzione alle differenze biologiche tra uomo e donna e all’importanza dei corretti stili di vita.
«La medicina cardiovascolare di genere ha fatto grandi passi avanti dagli anni ’90 a oggi, ma dobbiamo lavorare ancora molto. Sia a livello di prevenzione e consapevolezza del rischio nelle donne, sia a livello di formazione. Insegnare le differenze di genere nelle facoltà di medicina è fondamentale per migliorare la sicurezza e l’efficacia della prescrizioni mediche».
Quali sono le principali differenze tra uomo e donna nel contesto delle malattie cardiovascolari?
«Le differenze sono molte e significative. Le donne hanno un cuore e dei vasi sanguigni più piccoli rispetto agli uomini. Inoltre, i fattori di rischio che determinano l’aterosclerosi – come colesterolo elevato, ipertensione, diabete e fumo di sigaretta – agiscono diversamente nei due sessi. Nelle donne, gli estrogeni prodotti naturalmente fino alla menopausa esercitano un’azione protettiva sull’endotelio, la parete interna dei vasi. Con l’arrivo della menopausa, però, questa protezione viene meno, e l’aterosclerosi inizia a manifestarsi clinicamente. Questo non significa che la donna non abbia aterosclerosi prima della menopausa: è diversa da quella dell’uomo. Con la menopausa, poi, i cambiamenti della risposta dei vasi modificano la aterosclerosi avvicinandola a quella dell’uomo. Dobbiamo far sì, quindi, che un’informazione adeguata raggiunga la popolazione per sensibilizzare sul rischio cardiovascolare».
Insomma, bisogna ancora scalfire l’idea che le donne siano meno esposte al rischio cardiovascolare?
«Sì. Nel campo della medicina cardiovascolare di genere ci sono tre sfide principali da affrontare. La prima è la sottovalutazione da parte degli operatori della sanità del rischio cardiovascolare nella popolazione femminile, specialmente prima della menopausa. La menopausa è un momento fondamentale per il rischio cardiovascolare, ma l’aterosclerosi è un fenomeno lento e progressivo che inizia molto precocemente, questo ha portato a una minore attenzione nella diagnosi precoce nelle donne giovani adulte e, soprattutto, nella prevenzione. La seconda sfida è la scarsa consapevolezza delle donne stesse riguardo al rischio cardiovascolare. In uno studio condotto su donne in premenopausa con un alto livello culturale, è stato chiesto quale fosse la causa principale di morte: la maggior parte ha risposto ‘cancro al seno’, che in realtà incide per circa il 3%, mentre le malattie cardiovascolari superano il 45%. Questa scarsa consapevolezza determina una mancata azione in termini di prevenzione. Infine, c’è la questione della ricerca farmacologica: fino a poco tempo fa, la maggior parte degli studi per validare l’efficacia e la sicurezza dei farmaci veniva condotta su uomini: la rappresentanza femminile era minima. Questo significa che la maggior parte dei farmaci che usiamo oggi sono stati testati pochissimo sulla popolazione femminile e questo spiega perché proprio nelle donne si riscontra un maggior numero di effetti collaterali. Su questo fronte si sta lavorando molto a livello internazionale e oggi AIFA, EMA e FDA impongono il gender balance negli studi di validazione dei farmaci. Ci vorranno però anni prima che si vedano i risultati».
Come migliorare la situazione, soprattutto nel campo della prevenzione?
«L’insegnamento della medicina di genere è fondamentale. Premesso che il MUR ha già reso obbligatorio l’inserimento della medicina di genere nei programmi di insegnamento, serve un ulteriore sforzo per far acquisire competenze specifiche ai giovani medici e specializzandi. Se il personale sanitario è in grado di riconoscere precocemente i sintomi e il rischio cardiovascolare, può intervenire con azioni di prevenzione mirate. Per esempio, nei casi di infarto, gli uomini generalmente sperimentano dolore al petto, difficoltà respiratorie e irradiazione del dolore lungo il braccio sinistro. Nelle donne, invece, i sintomi possono essere diversi: affaticamento, difficoltà respiratorie, dolore interscapolare o gastrico. Questi sintomi erano considerati ‘anomali’, ma sono legati a una diversa innervazione e a una diversa risposta del sistema cardiovascolare. Anche le campagne di sensibilizzazione sul colesterolo e l’ipertensione sono efficaci, ma devono tenere conto delle differenze tra uomo e donna. Perché uomini e donne rispondono diversamente ai fattori di rischio. Per ragioni anatomiche, ormonali, ecc. La personalizzazione della prevenzione, quindi, compresa la prescrizione di attività fisica, è cruciale. L’esercizio fisico, per esempio, deve tener conto della diversa massa muscolare tra uomini e donne e della diversa risposta della pressione arteriosa allo sforzo fisico. In altre parole, la quantità e la qualità dell’esercizio fisico che si suggerisce per migliorare la risposta cardiovascolare, senza affaticare il cuore, deve essere personalizzata».
Sensibilizzazione e formazione sono proprio alcune delle attività del Gruppo di Studio “Malattie cardiovascolari di genere” della Società Italiana di Cardiologia di cui lei fa parte.
«Esattamente. Il nostro gruppo ha l’obiettivo di aumentare la conoscenza e la consapevolezza della medicina cardiovascolare di genere. Organizziamo congressi, stiliamo documenti scientifici e coinvolgiamo giovani specializzandi e specializzande per diffondere corrette informazioni. Tra le nostre attività ci sono anche gli screening di popolazione: promuoviamo eventi di piazza durante i quali invitiamo le persone a sottoporsi a valutazioni del rischio cardiovascolare. Inoltre, stiamo attivando una serie di podcast, con giovani cardiologi e cardiologhe che si confrontano con colleghi senior su temi legati alla medicina di genere. Ovviamente, è bene ribadire che la medicina di genere è trasversale alle discipline: non riguarda solo la cardiologia, anche se a livello cardiovascolare le differenze sono macroscopiche. Per questo è importante inserire la medicina di genere nei programmi di insegnamento, sin dai corsi iniziali di anatomia e fisiologia, perché conoscere le differenze biologiche è fondamentale per una corretta formazione medica».
Il suo messaggio è chiaro: educare alla medicina di genere non significa solo migliorare la salute delle donne, ma costruire un sistema sanitario più equo ed efficace per tutti e tutte.
«Proprio per questo creare consapevolezza, nella classe medica e nella popolazione, è fondamentale. La formazione è la chiave per costruire una cultura attenta alle differenze e una medicina sempre più inclusiva. Come università, stiamo lavorando per implementare una cultura che tenga conto delle differenze di genere. È un lavoro in evoluzione, ma i progressi sono evidenti. D’altro canto stiamo cercando di sensibilizzare le giovani donne sui rischi cardiovascolari, specialmente in momenti chiave come la gravidanza, quando è possibile sviluppare complicanze come ipertensione o diabete. La prevenzione deve iniziare prima della gravidanza, con controlli della pressione, del peso, una sana alimentazione e adeguata attività fisica. Il messaggio deve essere chiaro: la prevenzione è fondamentale in ogni fase della vita e un approccio di genere nella pratica clinica può contribuire notevolmente alla promozione della salute».