Medicina di genere: tra riconoscimento scientifico e ritardi applicativi

Medicina di genere: a che punto siamo tra riconoscimento scientifico e ritardi applicativi

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Silvia Pasqualotto

Perché ne stiamo parlando
Per decenni la medicina ha ignorato le differenze tra uomini e donne, portando a diagnosi sbagliate, cure inefficaci e farmaci meno sicuri. La medicina di genere nasce per colmare questa disuguaglianza.

Per decenni la medicina ha avuto un punto di vista parziale: quello maschile. Per troppo tempo, il corpo femminile è stato invisibile nei protocolli clinici, nei trial farmacologici, nei modelli di riferimento su cui si basavano diagnosi e terapie. I sintomi riportati dalle donne venivano spesso minimizzati o letti attraverso parametri maschili e i farmaci venivano testati quasi esclusivamente su uomini, ignorando le differenze biologiche, ormonali e metaboliche tra i sessi. Il risultato? Una medicina che ha curato meno e peggio le donne, rendendo la disuguaglianza scientifica una questione di salute pubblica.

È da questa consapevolezza che nasce la medicina di genere: un approccio che riconosce e valorizza le differenze tra uomini e donne, con l’obiettivo di garantire a tutti e a tutte diagnosi più accurate, cure più efficaci e una scienza finalmente inclusiva.

Cos’è la medicina di genere

La medicina di genere è un approccio trasversale che analizza come le differenze biologiche (sesso) e socio-culturali (genere) influenzino la salute, la prevenzione, la diagnosi e la risposta alle terapie. Non si tratta di una specializzazione medica autonoma ma di una prospettiva integrata che mira a personalizzare le cure, migliorare l’efficacia dei trattamenti e promuovere l’equità nel sistema sanitario.

Negli ultimi decenni infatti la ricerca ha evidenziato come molte patologie si manifestino e progrediscano diversamente tra uomini e donne. Ad esempio, le malattie cardiovascolari, spesso considerate “maschili”, rappresentano la principale causa di morte anche tra le donne, ma con sintomi spesso atipici e meno riconosciuti, portando a diagnosi tardive e trattamenti meno efficaci.

E non si tratta solo di patologie organiche: anche nella salute mentale le differenze sono cruciali. Uno studio pubblicato su Psychiatric Clinics of North America ha mostrato che uomini e donne reagiscono in modo diverso agli stessi farmaci, anche per via di ormoni e metabolismo diversi. Ad esempio, gli Ssri (Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), tra gli antidepressivi più usati, risultano spesso più efficaci nelle donne, mentre gli uomini rispondono meglio ad altri tipi di farmaci, come i triciclici.

Questo può influenzare non solo l’efficacia della cura, ma anche il dosaggio e il rischio di effetti collaterali. Anche in questo caso, capire e tenere conto delle differenze tra uomini e donne significa offrire terapie più adatte e più sicure.

Curare peggio le donne costa caro. E non solo a loro

L’assenza di una prospettiva di genere in medicina non è solo una lacuna scientifica: è una fonte di disuguaglianza sanitaria, con costi umani e sociali altissimi. Quando diagnosi, terapie e protocolli clinici sono pensati su un modello “maschile” standard, le donne rischiano di essere curate peggio, più tardi, o addirittura in modo dannoso.

Le conseguenze sono tangibili: sintomi sottovalutati, ritardi nei percorsi diagnostici, minore efficacia terapeutica, maggiore esposizione a effetti collaterali. Secondo un’analisi del Financial Times, i farmaci approvati mostrano effetti avversi gravi o fatali nel 52% dei casi in più nelle donne rispetto agli uomini.

Negli Stati Uniti, nonostante la legge federale del 1993 obblighi l’inclusione delle donne negli studi clinici finanziati dal National Institutes of Health, l’ente federale statunitense per la ricerca biomedica e sanitaria, la loro partecipazione si ferma ancora al 40% anche in aree terapeutiche che le riguardano in modo diretto, come oncologia e cardiologia. Non solo. Tra il 1997 e il 2000, secondo il U.S. Government Accountability Office, l’80% dei farmaci ritirati dal mercato statunitense aveva effetti collaterali più gravi per le donne, proprio perché testati su campioni maschili.

Una disparità che non si traduce solo in peggiori esiti clinici per metà della popolazione, ma anche in un aggravio per i sistemi sanitari, costretti a gestire ricadute evitabili, con interventi più complessi, ospedalizzazioni più frequenti e terapie correttive.

Dalla teoria alla pratica: gli ostacoli che frenano la medicina di genere

Nonostante il riconoscimento crescente del valore della medicina di genere, la sua applicazione concreta nella pratica clinica è ancora frammentaria. Molte terapie, dispositivi medici e protocolli diagnostici continuano a essere sviluppati su modelli maschili, senza un’adeguata rappresentazione femminile nei trial clinici. Anche in ambiti in cui le donne sono più colpite – come le malattie autoimmuni, la depressione, l’osteoporosi o alcune forme di cancro – la loro partecipazione agli studi resta significativamente inferiore rispetto a quella degli uomini.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono attualmente in sviluppo oltre 1.200 farmaci pensati per la salute femminile, ma la ricerca continua a soffrire della mancanza di dati disaggregati per sesso e genere. Una carenza strutturale che impedisce di comprendere a fondo le differenze nella risposta ai trattamenti, limitando l’efficacia delle terapie e la sicurezza dei pazienti.

Un’analisi del Financial Times ha evidenziato come la resistenza al cambiamento sia ancora radicata: dai criteri di selezione nei trial clinici fino alla formazione universitaria, il paradigma androcentrico della medicina fatica a essere superato. In molti casi, il problema non è solo l’assenza di linee guida aggiornate, ma anche l’inerzia culturale e istituzionale che frena l’integrazione della prospettiva di genere nei percorsi sanitari.

La medicina di genere è oggi riconosciuta come un’esigenza scientifica, ma resta in gran parte confinata al livello teorico. Portarla nella pratica quotidiana richiede non solo norme e finanziamenti, ma un cambiamento sistemico: nella ricerca, nella formazione, nelle politiche sanitarie e nella cultura clinica.

Cosa si sta facendo concretamente per cambiare le cose: una panoramica internazionale

A livello globale, la consapevolezza sull’importanza della medicina di genere sta crescendo, ma la sua applicazione resta disomogenea. Alcuni Paesi hanno adottato misure concrete e strutturate, mentre altri mostrano ancora resistenze culturali o limiti normativi.

Negli Stati Uniti, il National Institutes of Health (Nih) ha introdotto nel 2015 la politica Sex as a Biological Variable(SABV), che obbliga i ricercatori finanziati a includere il sesso biologico come variabile nella progettazione e nell’analisi degli studi. È un passo fondamentale per garantire maggiore equità nella ricerca biomedica. Tuttavia, recenti tagli ai fondi destinati alla salute delle donne e alla ricerca su diversità di genere – denunciati da più fonti – sollevano interrogativi sulla sostenibilità dei progressi ottenuti.

L’Unione europea ha fatto della medicina di genere un requisito per accedere ai finanziamenti del programma Horizon Europe (2021–2027). Gli enti di ricerca devono avere un Gender equality plan per partecipare ai bandi e l’integrazione della dimensione di genere è diventata uno dei criteri nella valutazione dell’eccellenza scientifica. Inoltre, l’Agenzia europea per i medicinali (Ema) ha avviato un processo per rafforzare l’attenzione alla dimensione di genere nella fase di approvazione dei farmaci, anche attraverso linee guida dedicate.

In Europa continentale, alcuni Paesi stanno assumendo un ruolo di riferimento. In Austria, la medicina di genere è parte obbligatoria dei corsi universitari in medicina e farmacia. In Svezia, le politiche sanitarie integrano esplicitamente l’equità di genere come obiettivo strategico, con linee guida per ospedali e operatori sanitari. In Francia, istituti pubblici come Inserm e Santé Publique France hanno istituito gruppi di lavoro permanenti per analizzare le disuguaglianze di genere in ricerca, prevenzione e assistenza, promuovendo studi ad hoc e formazione per i professionisti.

Nel complesso, la medicina di genere sta diventando parte integrante dell’agenda sanitaria globale, ma la sua diffusione effettiva dipende ancora da fattori locali: volontà politica, investimenti pubblici, formazione accademica e spinta della comunità scientifica. Il rischio, in assenza di un’azione concertata e sistemica, è che resti confinata a buone pratiche isolate o a nicchie di ricerca specializzata.

Focus Italia: tra leadership normativa e sfide operative

L’Italia è stata pioniera in Europa nell’adozione di una legislazione specifica sulla medicina di genere. La Legge 3/2018 ha istituito un Piano nazionale per l’applicazione della medicina di genere, coordinato da un Osservatorio presso l’Istituto superiore di sanità (Iss). Questo piano promuove la formazione del personale sanitario, la ricerca basata sulle differenze di genere e la comunicazione pubblica mirata.

Tuttavia, l’implementazione pratica varia tra le diverse regioni. Alcune, come il Veneto e l’Alto Adige, hanno sviluppato piani d’azione regionali e organizzato simposi dedicati al tema. In Alto Adige, ad esempio, è stato istituito un gruppo di lavoro sulla medicina di genere e vengono organizzati incontri nelle scuole e campagne di sensibilizzazione. Non basta però che la medicina di genere sia riconosciuta a livello normativo: deve diventare una prassi quotidiana, integrata nelle decisioni cliniche, nella formazione, nella ricerca e nei servizi ai cittadini.

L’Italia ha posto basi solide e ha espresso una visione avanzata, ma serve ora uno sforzo coordinato tra Stato, Regioni, comunità scientifica e società civile per trasformare il principio di equità in salute in una realtà concreta e diffusa. Solo così la medicina potrà davvero prendersi cura di tutti, in modo giusto ed efficace.

Keypoints

  • La medicina ha storicamente ignorato le differenze tra uomini e donne
  • Le donne sono spesso escluse dai trial clinici e curate con protocolli maschili
  • La medicina di genere migliora diagnosi, terapie e sicurezza
  • L’Italia ha una legge pioniera ma l’attuazione è disomogenea
  • Servono più dati, formazione e volontà politica per rendere equa la sanità

 

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