Sono pressoché ovunque: dai fondali oceanici all’aria che respiriamo, dal plancton alla frutta che mangiamo. Ovunque siano stati fatti campionamenti, sono state rilevate tracce di micro e nanoplastiche. Quali gli effetti sulla nostra salute? E cosa fare per ridurre l’inquinamento e la dispersione di plastica nell’ambiente?
Se n’è discusso all’Acquario Civico di Milano nel convegno “Microplastic on human health” organizzato dal Dipartimento di Fisiopatologia Medico-chirurgica e dei Trapianti dell’Università degli Studi di Milano.
L’impatto globale della plastica
Flessibile, duttile, impermeabile, leggera, economica, duratura. «Per queste caratteristiche le materie plastiche hanno avuto un successo straordinario nei più svariati campi di applicazione» ha affermato Claudio Fenizia, professore di Immunologia all’Università di Milano, che con l’obiettivo di fare il punto sull’impatto sulla salute umana, andando oltre l’allarmismo mediatico, ha focalizzato l’attenzione sull’altro lato della medaglia. La straordinaria durabilità della plastica ha un enorme costo ambientale – «persiste per tempi infinitamente lunghi nell’ambiente» – e in particolare microplastiche (inferiori a 5 millimetri) e nanoplastiche (particelle inferiori ai 100 nanometri) sono ovunque: nell’aria, nelle falde acquifere, nei mari, nel suolo. «E così attraverso inalazione o ingestione, questi inquinanti finiscono nel nostro organismo, dove sono stati rilevati in intestino, feci, polmoni, sangue, fegato, sperma, e perfino nella placenta, nel liquido amniotico, nel meconio e nel sangue del cordone ombelicale».
Origine delle microplastiche
In base alla loro origine, si distinguono le microplastiche primarie da quelle secondarie.
Le microplastiche secondarie derivano dalla degradazione di oggetti più grandi, come copertoni, attrezzature per la pesca, tessuti sintetici, packaging, per attrito meccanico (per esempio usura degli pneumatici o lavaggio di vestiti a base di poliestere) o per l’azione dei raggi ultravioletti.
«La frammentazione delle plastiche – ha spiegato Fenizia – favorisce il rilascio degli additivi in esse contenuti per donare le caratteristiche evolute (antiossidanti, stabilizzanti, ritardanti di fiamma, ecc.), rilascio che crea un inquinamento aggiuntivo alla presenza del polimero plastico di per sé».
Le microplastiche primarie, invece, sono già prodotte in dimensioni micro o nano per applicazione in diversi campi: nei cosmetici, nei detergenti, nei fertilizzanti. «Le microsfere nei dentifrici fino a qualche anno fa erano tutte microplastiche. Ora la produzione di microplastiche primarie è stata vietata dal Microplastics European Restriction Act, a eccezione di quelle usate nel campo dei fertilizzanti. Un passo importante, seppur piccolo, considerato che le microplastiche primarie rappresentano circa l’1% delle microplastiche che troviamo negli ambienti naturali».
Effetti sulla salute umana?
«La presenza di microplastiche in tessuti o organi umani è correlata ad alcune patologie, ma non possiamo ancora stabilire un nesso causale diretto» ha precisato Fenizia illustrando alcuni studi che suggeriscono un effetto infiammatorio, cancerogeno e la compromissione dello sviluppo fetale. «Si è visto per esempio che pazienti con malattie infiammatorie intestinali presentano una maggiore concentrazione di microplastiche nelle feci. Le microplastiche trovate nella placenta sono associate a ritardi nella crescita fisica dei neonati. E il 58,4% delle placche aterosclerotiche contengono microplastiche, suggerendo un possibile ruolo nei processi infiammatori».
Tuttavia, il professor Fenizia ha spiegato chiaramente che «questi studi mostrano correlazioni ma non spiegano il meccanismo, cioè se la plastica sia causa o conseguenza della malattia. Per esempio, nelle cellule tumorali, che sono cellule che hanno perso il controllo, mangiano di più, crescono di più e si riproducono di più, aver riscontrato una maggiore presenza di microplastiche è causa o conseguenza del tumore?». Così come in merito allo studio statunitense che indica una maggiore presenza di microplastiche nelle feci di persone con patologie intestinali infiammatorie, Fenizia ha precisato che «i pazienti più gravi sono persone che tipicamente mangiano ai fast food e il cibo dei fast food è più invaso da microplastiche per il tipo di processamento e conservazione. Allora anche in questo caso è difficile stabilire se la concentrazione di microplastiche sia causa della patologia o è l’abitudine alimentare sbagliata a determinare un accumulo di microplastiche nelle feci».
Ricerche in laboratorio
È un campo di ricerca ancora relativamente giovane, ha precisato Fenizia, spiegando che per studiare l’impatto sulla nostra salute delle microplastiche possono essere d’aiuto i modelli sperimentali in vitro. Si espongono cioè cellule rappresentative di tessuti del nostro corpo alle micropplastiche per valutare le conseguenze.
«Nel nostro laboratorio abbiamo osservato l’effetto delle microplastiche sui macrofagi, cellule del sistema immunitario che vigilano su tutte le sostanze che entrano dall’esterno. Quelli più attivi, che inglobano più microplastiche, muoiono di apoptosi. In altre parole la cellula va in sofferenza perché non riesce a degradare il materiale, rilascia segnali infiammatori, e implode». Riprodurre in laboratorio condizioni realistiche di esposizione costante alle micro e nanoplastiche è però ancora una sfida. «I polimeri sono tantissimi, anche gli additivi, di diverse dimensioni. Dobbiamo affinare gli strumenti, le tecnologie e i disegni sperimentali. C’è bisogno di un approccio multidisciplinare e di tempo per poter, oltre ogni allarmismo, dare messaggi conclusivi su un problema così complesso», ha concluso Fenizia, sottolineando che al momento è possibile attribuire alle microplastiche un effetto infiammatorio.
Dalla ricerca in laboratorio agli ospedali sostenibili
«Se la salute umana, animale e ambientale sono fra loro connesse, chi fa sanità non può non porsi l’obiettivo di incidere anche sul resto, cercare di fare salute non solo curando i pazienti ma anche cercando di incidere sugli altri ambiti», ha commentato Elena Bottinelli, Head of Digital Transition and Transformation del Gruppo San Donato. Del resto, Bottinelli ha ricordato che a livello globale l’industria medica contribuisce al 4-5% delle emissioni globali di gas serra: «Se fosse una nazione, la filiera della sanità occuperebbe il quinto posto dopo Stati Uniti, Cina, Russia e India».
Circoscrivendo l’attenzione alle strutture ospedaliere, come deve essere l’ospedale del futuro? «La Missione 6 del PNRR – ha spiegato – ci dice che l’ospedale deve essere diffuso, ha nella casa il primo luogo di cura, grazie a telemedicina, domotica, fascicolo sanitario elettronico, intelligenza artificiale, ecc.. E deve essere sostenibile. In linea con la certificazione Leed. Deve essere cioè progettato, realizzato e mantenuto in modo sostenibile. Deve promuovere il benessere del paziente, del personale e della comunità, quindi deve adottare pratiche e tecnologie per migliorare l’efficienza energetica riducendo le emissioni di gas serra, deve usare efficacemente le risorse idriche, ridurre rifiuti, promuovere la mobilità sostenibile, attraverso un business etico e trasparente».
La Practice Green Health, no profit che lavora con più di 1700 ospedali statunitensi e canadesi per renderli più sostenibili, stima che il 25% dei rifiuti generati da un ospedale sia composto da plastica e citando uno studio, Bottinelli ha ricordato come per una singola isterectomia si possano produrre quasi 10 chili di rifiuti, la maggior parte dei quali è plastica.
Ma ci sono alcuni esempi virtuosi di realtà ospedaliere che cercano di ridurre l’uso della plastica per ridurre a monte il problema dell’inquinamento.
Dalla sostituzione delle bottigliette di plastica con erogatori di acqua – «sostituendo 500 bottiglie al giorno, l’Auxologico ha risparmiato ben 6 tonnellate di CO2 in un anno», ha illustrato la professionista – alla sostituzione dei teli di plastica monouso usati per impacchettare gli strumenti da sterilizzare con container con filtri (ha raccontato in proposito l’esperienza di un ospedale tedesco che così in un anno ha prodotto il 95% di rifiuti in meno) fino alla scelta di Villa Erbosa Bologna di abbandonare l’acquisto di confezioni singole dei kit procedurali per interventi di protesi d’anca, ginocchio, alluce valgo e stabilizzazione spinale, riducendo la produzione dei rifiuti e, al contempo, ottimizzando i tempi della sala operatoria.
«Oggi il contesto normativo ci pone a ragionare sui temi della sostenibilità. L’Unione Europea ha avviato una serie di riforme e nell’ambito del Green Deal si colloca la direttiva della Corporate Sustainability Reporting Directive» ha concluso Bottinelli, ricordando come la CSRD impegni le imprese, quindi anche le aziende ospedaliere, a integrare gli obiettivi ESG all’interno della propria strategia e produrre un report specifico associato al report di bilancio.