La sostenibilità sia la chiave per la strategia di successo delle PMI: intervista a Manuela Macchi

La sostenibilità sia la chiave per la strategia di successo delle PMI: intervista a Manuela Macchi

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Daniel Bonfanti

Perché ne stiamo parlando
I criteri ESG sono fattori determinanti per la crescita delle aziende e l’Unione Europea è sempre più esigente dal punto di vista normativo su questi temi. La sostenibilità deve però rappresentare una chiave per il successo delle imprese, e non un criterio da soddisfare sul piano giuridico: intervista a Manuela Macchi.

L’Unione Europea si è dimostrata capofila in termini di normativa e tassonomia su ciò che riguarda la sostenibilità delle imprese e del loro modello di business. Il pacchetto normativo che contiene la Corporate Sustainability Due Diligence (CSDD), la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e la Sustainable Financial Disclosure Regulation (SFDR), ha l’obiettivo di fornire un contesto di riferimento alle aziende su ciò che è sostenibile, invitandole alla rendicontazione dei propri processi nell’ottica di un miglioramento complessivo del sistema di produzione. Nonostante il recente “raffreddamento” istituzionale confermato dalla bocciatura da parte del Consiglio Europeo dell’approvazione della CSDD, ormai moltissime aziende stanno rivedendo il proprio business in funzione dei criteri ESG, in quanto prima che la normativa è il mercato stesso a richiederlo. Per capire come anche le PMI possono integrare la sostenibilità nella propria strategia di business al di là degli obblighi giuridici, abbiamo intervistato Manuela Macchi, esperta di sostenibilità e CSO Fractional, Independent Strategic Advisor e Senior ESG Advisor, che da anni aiuta le aziende in questa trasformazione sostenibile.

Dott.ssa Macchi, partiamo dal contesto normativo europeo: quali effetti stanno avendo le nuove direttive nel cambiare il modello di sviluppo delle grandi aziende quotate?

L’Unione Europea è stata presa ad esempio per la sua capacità di essere pioniera sui temi che riguardano la sostenibilità. La UE intende raggiungere la neutralità carbonica al 2050, avendo al 2030 una riduzione del 55% delle emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990, cercando al contempo di garantire una transizione giusta ed equa. In questo quadro la UE ha cercato di produrre una serie di normative che fossero tra loro coerenti e che allo stesso tempo favorissero la competitività delle aziende europee. Da questo punto di vista la CSRD, ad esempio, è molto interessante perché consente alle aziende di mostrarsi nella loro interezza, quindi non solo nella dimensione economico-finanziaria, ma anche in quella non finanziaria o pre-finanziaria e includendo la catena del valore: strategia e obiettivi strategici (inclusi quelli climatici), business model, organi di governo, rischi e opportunità. Tutte queste normative, secondo me, non rappresentano il driver del fare impresa in modo sostenibile, ma indubbiamente accelerano una serie di processi trasformativi, soprattutto nelle aziende per cui la sostenibilità è stata vista come rendicontazione/DNF e quindi compliance. La rendicontazione di sostenibilità normalmente aiuta a prendere consapevolezza delle performance nei vari ambiti ambientali e sociali e di governance e a mettere in atto un processo di miglioramento; quindi, da questo punto di vista sicuramente ha avuto con la NFRD e avrà con la CSRD un impatto positivo in termini di integrazione della sostenibilità nei sistemi di incentivazione, nella definizione di piani di sostenibilità e nei sistemi di incentivazione.

Quanto pesa la recente bocciatura della CSDD da parte del Consiglio Europeo in questo percorso?

Questo è un tema un po’ preoccupante, perché la CSDD in realtà è la gemella della CSRD. Ci sono molte interrelazioni tra le due. Una volta arrivati a dicembre, quando alla fine si era giunti a un accordo a livello di Trilogo eliminando le parti più spinose – soprattutto quelle della responsabilità civile degli amministratori per inadempimenti forieri di danni – ci si aspettava un’approvazione rapida. Anche perché è vero che se da un lato questo processo di diligenza e di qualifica della catena di fornitura sui temi di sostenibilità, in particolar modo su diritti umani e ambiente, è qualcosa che è già stato avviato dalle grandi aziende lungo la filiera, seguendo le indicazioni di ONU e OECD, però dall’altro si avverte il bisogno di avere una normativa che fornisca regole, uniformi e in qualche modo protegga le categorie più vulnerabili, e le imprese stesse, nel poter giustificare questa azione. Quindi adesso il tema è poter chiudere l’accordo senza ostruzionismo in tempi rapidi, prima che ci siano le elezioni europee. Altrimenti mancherebbe una parte importante dell’intero pacchetto che, come detto prima, è formato da normative strettamente connesse tra di loro e si creerebbe sfiducia verso l’intero progetto UE di transizione sostenibile.

Anche perché integrare la sostenibilità nella propria idea di business non deve essere una prerogativa solo dei grandi gruppi, ma anche delle PMI, che possono in questo modo trovare nuove opportunità di crescita. Essere sostenibili per crescere, non perché imposto da una normativa: in Italia come sta andando?

Le PMI stanno vivendo la sostenibilità in un modo quasi più autentico rispetto alle grandi aziende quotate. Le grandi società quotate, fatto salvo quella frangia che aveva già iniziato questo percorso prima ancora che diventasse obbligatoria la DNF e che quindi l’avevano integrato nella strategia, hanno dovuto adeguarsi per essere compliant, trovandosi a fare un percorso quasi al contrario, partendo in alcuni casi dalla rendicontazione per obbligo per poi iniziare ad integrare i temi ESG nella strategia. Le piccole e medie imprese, almeno questo è il mio punto di osservazione, ricevono invece prevalentemente gli stimoli dalla catena del valore e dalle banche. Essendo nella filiera di grandi aziende che hanno fatto della sostenibilità un tema strategico e che quindi cominciano a qualificare e selezionare gli attori della catena, le PMI percepiscono subito l’impatto sul business, colgono il rischio di perdita di competitività, e nel medio periodo il rischio di sopravvivenza. Quindi cominciano a porsi la questione della trasformazione. Poi ci sono le banche. Da quando gli istituti di credito sono stati obbligati a valutare il rischio di credito dal punto di vista ESG, in particolar modo quello climatico e ambientale, hanno iniziato a capire i rischi finanziari della non transizione (perdita di finanziamenti, aumento del costo del capitale…).

Nel suo lavoro, nel concreto, come aiuta le PMI ad affrontare questo cambiamento? Come si integrano gli obiettivi ESG nelle strategie aziendali?

Quello che faccio è partire da un assessment sui fattori ESG con l’AD e i suoi diretti riporti, per comprendere insieme il livello di consapevolezza che si ha su questi temi, e le azioni che le aziende hanno già intrapreso, magari a livello di singoli progetti, ma che non hanno ancora messo a sistema. Dopodiché facciamo la mappatura degli stakeholder e l’analisi di materialità. Il coinvolgimento degli stakeholder è chiave per instaurare un dialogo aperto e trasparente e nel tempo anche per avviare una co-progettazione, per riuscire non solo a soddisfare le richieste del cliente, ma anche a condividere le risorse e i progetti dall’inizio e raggiungere un maggiore impatto. Quindi eseguiamo la valutazione dei rischi e delle opportunità legati anche ai temi materiali e identifichiamo le azioni di mitigazione ei pilastri strategici, da un lato per sviluppare aree progettuali e dall’altro in vista della rendicontazione. Sto accompagnando anche alcune aziende nella trasformazione in Società Benefit, laddove c’è anche la lungimiranza dell’imprenditore per istituzionalizzare il processo ed impegnarsi in un percorso di miglioramento. Ciò che è interessante – ed è il mio obiettivo – è creare un team che poi possa andare avanti in autonomia nel percorso, Le aziende si rendono conto del processo di miglioramento che continua nel tempo con impatti positivi sul business. Devo dire che, secondo me, il mondo delle PMI è partito dopo, però sta crescendo e avrà delle gambe robuste in questo percorso.

Quali sono i settori nei quali, secondo lei, c’è più attenzione ai temi ESG e in quali ancora si fa più fatica? Per quali motivi?

Questi processi trasformativi devono essere veramente tagliati su misura. Cioè, si deve partire dall’azienda e da quello che fa, quindi la trasformazione – quella realmente sostenibile, non il greenwashing – è sempre possibile. Bisogna capire quali sono le dimensioni di valore su cui intervenire. Tra i settori, se dovessimo generalizzare, secondo me sicuramente il manifatturiero, il food e il tessile-abbigliamento sono quelli più coinvolti e stimolati rispetto, ad esempio, all’ambito dei servizi terziari. È importante notare che le aziende che appartengono ai settori dove coesistono più fattori di spinta allo stesso tempo (fattore normativo, mercato, finanza), sentono più forte il bisogno di avviare percorsi di transizione sostenibile. Quindi, quando ci sono tutte e tre queste dimensioni, c’è un’accelerazione del processo di cambiamento. Chi invece è più distante dalle esigenze del mercato, e quindi riceve un po’ meno sollecitazioni, in questo momento sta facendo fatica a capire che è un percorso necessario poi alla fine per tutti.

Le istituzioni come possono agevolare il cambiamento sostenibile?

In particolare, per il tessuto delle PMI sarebbero auspicabili degli interventi legati alla premialità. Per le piccole e medie imprese poter contare su delle premialità e quindi sul riconoscimento del percorso fatto – che per loro è un investimento, rappresenta un costo anche maggiore in relazione ai grandi gruppi – sarebbe sicuramente importante. Il tema potrebbe essere quello di avere più occasioni di finanziamento a fondo perduto, attraverso strumenti più sistemici. Quello che sto vedendo, infatti, è che spesso vengono previste agevolazioni una tantum, riferite talvolta all’economia circolare, altre volte al tema della parità di genere e così via. Sarebbe interessante, invece, premiare la strategia di sostenibilità e il percorso di miglioramento che le aziende stanno facendo, quindi stimolarle sull’approccio sistemico e non sul singolo progetto. Aiuterebbe molto dal punto di vista culturale, anche in vista del progresso e della vera trasformazione sostenibile delle aziende.

Keypoints

  • La sostenibilità deve rappresentare un imperativo strategico per le aziende, e non un’imposizione normativa
  • La recente bocciatura da parte del Consiglio Europeo della CSDD pone però un problema, perché avere un contesto normativo di riferimento è fondamentale per tutelare le aziende in questo cambiamento dei processi
  • Le PMI stanno vivendo la sostenibilità in un modo quasi più autentico rispetto alle grandi aziende quotate, perché ricevono gli stimoli direttamente dalla catena del valore e dalle banche
  • Tra i settori, il manifatturiero, il food e l’abbigliamento sono quelli più coinvolti e stimolati in questo processo di cambiamento, che deve essere mirato alle caratteristiche di ogni azienda
  • Per agevolare il cambiamento sarebbe utile che le istituzioni prevedessero dei meccanismi di incentivazione premianti e basati sull’intero processo migliorativo

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