La direttiva Ue 2023/970 sulla trasparenza retributiva potrà essere recepita entro il 7 giugno 2026, ma gli esperti avvertono: le imprese italiane farebbero bene a prepararsi già da ora per evitare sanzioni e possibili azioni legali da parte dei dipendenti. Questa normativa, infatti, introduce nuovi diritti con l’obiettivo di garantire la parità salariale tra uomini e donne, un principio sancito da tempo nell’ordinamento europeo ma ancora disatteso nella pratica.
Un’indagine condotta dall’Ue nel 2020 ha rivelato come il divario retributivo di genere persista, nonostante i principi di uguaglianza proclamati dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dal Codice delle pari opportunità. In Italia, secondo gli ultimi dati Inps, il gender pay gap si attesta al 20%, segno evidente di una disparità radicata.
Si tratta di un divario che, come spiega Ornella Patanè, avvocata e socia dello studio legale Toffoletto De Luca Tamajo, è determinato, oltreché dai pregiudizi di genere e da un retaggio patriarcale, «dalla poca trasparenza nelle strutture salariali che impedisce a chi subisce una discriminazione di raccogliere prove concrete per far valere i propri diritti in sede giudiziaria».
La direttiva europea mira proprio a colmare questa lacuna, offrendo strumenti concreti per rendere più equo il mondo del lavoro.
Cosa cambia per le imprese
La nuova direttiva introduce obblighi di trasparenza significativi per le aziende, imponendo sistemi retributivi, di valutazione e classificazione del personale che siano oggettivi e privi di discriminazioni di genere. Ogni decisione in merito a valutazioni, aumenti salariali o avanzamenti di carriera dovrà basarsi esclusivamente su criteri prestabiliti, concordati con i rappresentanti dei lavoratori. Tra questi criteri rientrano competenza, impegno, responsabilità e condizioni di lavoro.
Anche il processo di selezione subirà importanti cambiamenti. Le aziende, infatti, saranno tenute a garantire maggiore trasparenza nella fase di recruiting: ai candidati dovranno essere fornite informazioni chiare sulla retribuzione iniziale prevista per la posizione offerta e, soprattutto, non sarà più consentito chiedere loro lo stipendio percepito in precedenza. L’obiettivo? Evitare che si perpetuino ingiustizie e squilibri salariali.
«Si tratta di un vero cambio di paradigma – sottolinea Patanè – ed è forse uno degli aspetti che più preoccupa le imprese, abituate finora a condurre i colloqui come una negoziazione basata sul passato retributivo del candidato o della candidata». Le aziende dovranno dunque prepararsi a questa svolta, rivedendo le proprie strategie di selezione del personale.
Un altro aspetto fondamentale della norma riguarda la comunicazione: gli annunci di lavoro dovranno essere redatti in modo neutro rispetto al genere. Ad esempio, non sarà più possibile pubblicare un’inserzione per cercare “una segretaria”, ma si dovrà ricorrere a formulazioni inclusive e imparziali.
Queste nuove disposizioni segnano un passo importante verso un mercato del lavoro più equo, dove le opportunità professionali non dipendano da fattori discriminatori, ma esclusivamente dal merito.
Cosa si rischia
Le nuove regole si applicano a tutte le imprese, indipendentemente dalla loro dimensione o dal fatturato. Tuttavia, gli obblighi di rendicontazione variano a seconda delle dimensioni aziendali: le società con più di 250 dipendenti dovranno adeguarsi entro il 7 giugno 2027, mentre per quelle con oltre 100 dipendenti l’obbligo scatterà dal 7 giugno 2031.
Al di là della rendicontazione, le aziende dovranno comunque conformarsi alla direttiva per evitare possibili azioni legali da parte dei dipendenti. La grande novità risiede in un cambiamento radicale dell’onere della prova: non sarà più il lavoratore o la lavoratrice a dover dimostrare di aver subito una discriminazione, ma spetterà al datore di lavoro provare il contrario. Come sottolinea l’avvocata, «questo rappresenta una vera e propria rivoluzione, poiché fino ad ora la mancanza di trasparenza salariale rendeva quasi impossibile per le vittime fornire prove concrete, scoraggiandole dal ricorrere alla giustizia».
In caso di violazioni, la direttiva impone agli Stati membri di introdurre sanzioni amministrative che siano non solo efficaci, ma anche proporzionate e sufficientemente dissuasive per garantire il rispetto delle nuove disposizioni.
Nuovi diritti per i lavoratori
La nuova normativa introduce importanti diritti per i lavoratori, garantendo loro una maggiore trasparenza sulle retribuzioni. In particolare, essi potranno richiedere, in forma scritta, i dati retributivi disaggregati per genere, relativi a categorie lavorative comparabili. Inoltre, avranno il diritto di conoscere i criteri adottati dall’azienda per determinare stipendi, livelli contrattuali e progressioni economiche.
Le imprese, dunque, dovranno adeguarsi a questi nuovi obblighi con un’attenta pianificazione, evitando il rischio di fornire informazioni troppo generiche o, al contrario, eccessivamente dettagliate. Sarà fondamentale, inoltre, rispettare i tempi previsti dalla norma, che impone un massimo di due mesi per rispondere alle richieste dei dipendenti. «Le aziende dovranno prepararsi per tempo – avverte Patanè – per gestire al meglio questo diritto di informazione e garantire una comunicazione chiara ed efficace ai lavoratori».
Il settore Life science
Il settore Life Science, dominato principalmente da grandi imprese e multinazionali, si distingue per la sua elevata specializzazione e per il forte investimento in ricerca e sviluppo. Tuttavia, come sottolinea l’esperta, «l’impatto della nuova normativa su questo comparto sarà particolarmente complesso e peculiare».
Uno degli aspetti più critici riguarda la composizione del personale: sebbene il settore Life Science veda una presenza femminile significativa nei ruoli tecnici e scientifici, le donne risultano ancora sottorappresentate nelle posizioni di vertice, in particolare all’interno delle divisioni dedicate alla ricerca e sviluppo. In molte grandi aziende del comparto, la leadership e i ruoli decisionali restano appannaggio degli uomini, contribuendo così a un gender gap non solo in termini di rappresentanza ma anche di retribuzione.
«Un altro elemento distintivo di questo settore – spiega infine Patanè – è il sistema di grading interno adottato dalle multinazionali. Oltre alla retribuzione stabilita dal contratto collettivo nazionale, infatti, queste aziende prevedono strutture salariali articolate, con compensi variabili legati a specifici livelli gerarchici e prestazionali». Questo sistema, che spesso riflette dinamiche internazionali, dovrà ora essere armonizzato con la nuova normativa.
Secondo un rapporto del 2021 dell’Healthcare Businesswomen’s Association (HBA), il divario retributivo di genere in Europa è più pronunciato in settori come il bio-pharma (22,4%) e il settore life science (18%). La sfida principale per le aziende sarà dunque quella di integrare i nuovi obblighi normativi in un contesto già altamente regolamentato, promuovendo una maggiore equità di genere senza compromettere la competitività e l’attrattività del settore per i talenti.