La normazione può fare la differenza per «un mondo fatto bene», perché fissando criteri e requisiti attenti alla parità, all’inclusione, alla sostenibilità crea una cornice di riferimento per promuovere, attraverso le norme, il cambiamento sociale. E anche il linguaggio, «che è un generatore di cultura», può contribuire a costruire una società più equa.
«Un mondo fatto bene», spiega Gianna Zappi, è il claim di UNI, l’Ente italiano di normazione. Ne sintetizza la filosofia e l’obiettivo.
Cugino della più nota ISO, l’Organizzazione Internazionale per la Standardizzazione, UNI è un’associazione privata senza finalità di lucro con ormai più di 100 anni.
UNI è stato fondato infatti nel 1921, ed è riconosciuto dal Regolamento europeo come l’ente che in Italia svolge attività di normazione, quindi elabora gli standard – criteri, requisiti e prerequisiti – nei settori dell’economia, del commercio, del servizio, ecc. per realizzare prodotti migliori, erogare servizi efficaci, valorizzare le competenze, gestire organizzazioni efficienti.
«Noi definiamo standard e criteri in base ai quali le organizzazioni, che in maniera volontaria accolgono e si dichiarano conformi a questi standard, possono essere certificate nelle loro attività. Abbiamo un catalogo di oltre 20mila norme, e un raggio di azione immenso: dalla segnaletica stradale all’economia circolare, dalla sostenibilità alla parità di genere…».
Gianna Zappi è la Vice Direttrice Generale Sostenibilità e Valorizzazione di UNI: l’abbiamo incontrata per riflettere in particolare sul ruolo della normazione per contrastare la disparità di genere e fare il punto sull’impegno dell’ente in questo ambito.
A proposito di parità di genere, nel 2019 avete firmato la Gender Responsive Standards Declaration dell’United Nations Economic Commission for Europe (UNECE). Perché e che cos’è?
«UNI è la costola italiana del network internazionale che ha i suoi punti di riferimento nell’ISO e nel CEN, il Comitato Europeo di Normazione. In questo contesto abbiamo firmato questo documento per esplicitare la nostra adesione a questi principi fondamentali. L’UNECE è l’Organismo delle Nazioni Unite che, attraverso la Gender Declaration, ha dato inizio all’intero processo di gender equality. Si tratta di una dichiarazione formale che mira a definire obiettivi e ambiti di attività anche per quanto riguarda il nostro core business, la normazione: individua cioè ambiti dell’attività normativa coerenti rispetto al genere. Fino ad alcuni anni fa, la normazione non era focalizzata su questi aspetti: si consideri per esempio i dispositivi di protezione, come i camici, i giubbotti antiproiettili e i crash test per le auto. Tutto era pensato a misura del corpo maschile. Ma oggi sappiamo che i crash test hanno un’incidenza diversa su uomo e donna, e che lo standard tipo di un giubbotto antiproiettile o di un camice non può non tener conto delle diverse conformazioni del corpo maschile e femminile. Questi esempi possono sembrare banali, ma non lo sono. E anche la normazione, da alcuni anni ormai, si concentra su questi elementi, che non sono dettagli ma sostanza».
In effetti, altro che dettagli. La Nasa anni fa ha dovuto rimandare la passeggiata extraveicolare delle astronaute Anne McClain e Christina Koch per mancanza di tute spaziali della taglia giusta. Così come anche la prima astronauta europea, Claudie Haigneré, ha avuto problemi con i guanti: troppo grandi, perché a misura di uomini. Ma tornando a UNI, avete aderito alla Fondazione Libellula: un network di aziende che mira a prevenire e contrastare la violenza sulle donne e la discriminazione di genere. Perché?
«L’adesione a Libellula ha rappresentato un altro passo avanti importante per noi. UNI vive di relazioni e di networking. Ciò che facciamo lo facciamo tramite una rete di esperti, i nostri soci. E inoltre condividiamo su tavoli di altri soggetti scambi di buone pratiche. Nel caso di Libellula abbiamo condiviso la loro missione: prevenire ogni forma di violenza e discriminazione connessa al genere, non solo in ambito lavorativo. Libellula si è rivelata per noi un hub molto importante per favorire la nostra evoluzione su questo tema, fare scambio di buone pratiche e formare il nostro personale».
E questa estate avete predisposto anche le Linee Guida per la parità di genere nel linguaggio. Quale percorso vi ha portati a lavorare sulla comunicazione inclusiva?
«L’attenzione al linguaggio è connaturata alla natura di UNI. Noi emaniamo norme e standard e per noi la parola è due volte potente: lo è perché è un generatore di cultura e lo è ancora di più per noi che, con criteri, requisiti e prerequisiti, diamo forma alle cose, come sono e soprattutto come vorremmo che divenissero.
Con il linguaggio si può favorire il superamento di stereotipi di varia natura, di bias consapevoli e inconsapevoli. La lingua è uno strumento di inclusione nella società. Per questo abbiamo iniziato a prestare sempre maggiore attenzione all’uso di un linguaggio che non escluda e non discrimini e di immagini che non congelino ancora di più gli stereotipi di genere. In quest’ottica le nostre Linee Guida sono uno strumento pratico, operativo, un documento snello che presenta esempi utili per modificare usanze linguistiche consolidate ma non inclusive».
Come, per esempio, smettere di declinare al maschile i sostantivi che indicano la professione o il ruolo ricoperto da una donna, per non continuare a escludere attraverso le parole, per non cancellare i soggetti femminili “dentro” il genere grammaticale maschile?
«Esatto. Invece di dire “il ministro donna” è meglio ricorrere al femminile e dire “la ministra”. E l’espressione “Vi do il benvenuto” è più inclusiva di “benvenuti a tutti”.
Anche nella scrittura, queste pratiche ci consentono di dare un buon esempio e così in tutti i documenti UNI, interni ed esterni, stiamo ponendo attenzione a un linguaggio inclusivo.
Tutti i manuali salute e sicurezza sul lavoro prevedevano per esempio solo il lavoratore, nonostante il decreto 81 ponesse attenzione al genere. Allora li abbiamo riscritti per rivolgerci anche alle lavoratrici.
Può sembrare banale, ma non lo è: il linguaggio è un elemento strategico e non formale. Con le nostre Linea guida suggeriamo cosa fare e cosa non fare. E cerchiamo di promuovere il cambiamento, di indirizzare verso la giusta direzione per un uso corretto della lingua italiana».
Di fatto, nonostante siano passati quasi quarant’anni dalla pubblicazione delle raccomandazioni di Alma Sabatini per un uso non sessista della lingua italiana, c’è chi continua a opporre resistenza e anziché usare espressioni corrette dal punto di vista del genere e della grammatica genera paradossi linguistici, come per esempio “il ministro è in gravidanza”.
«È vero, le resistenze ci sono e sono culturali. Ma cambiare si può, ed è necessario. Bisogna decostruire gli stereotipi una parola alla volta. C’è chi obietta che con tutte le cose importanti a cui pensare, preoccuparsi di dover scrivere lavoratori e lavoratrici sia irrilevante. Ma curare il linguaggio risponde a un approccio strategico: UNI adotta il linguaggio inclusivo come parte di un approccio di responsabilità sociale, nell’ambito del quadro più ampio della Diversity and Inclusion».
D&I: oggi rafforzare la cultura della diversità e dell’inclusione nelle aziende è considerato un perno fondamentale per accrescerne il valore. Perché esiste un legame positivo tra equità e sviluppo sociale, ma anche crescita e competitività. In che modo UNI, e in generale la normazione, può orientare un cambiamento in questa direzione?
«L’inclusività ha un ruolo fondamentale nella visione di UNI. Il nostro obiettivo è valorizzare le persone, mettendo in risalto le differenze, e rispettando le competenze. Per questo abbiamo adottato una chiara politica D&I.
Come organizzazione, siamo orientati all’inclusione nella selezione delle persone, quando facciamo performance management e formazione e sviluppo, decliniamo tutti gli indicatori gestionali per genere monitorando attentamente tutte le nostre iniziative, ecc… E per quanto riguarda la governance, per rimediare allo squilibrio di genere, nei nostri regolamenti abbiamo indicato chiaramente l’importanza di valorizzare le competenze femminili tutte le volte che ci sono cambi o rinnovi nei gruppi di lavoro, a tutti i livelli. Gli effetti non saranno immediati, ma è la direzione giusta. E promuoviamo i principi di diversità, inclusione e pari opportunità anche all’esterno attraverso le attività normative, basti pensare alla PDR 125:2022 sulla parità di genere. Perché anche la produzione normativa deve tenere conto delle diversità tra le persone destinatarie di processi, prodotti, servizi o professioni, regolamentate da standard tecnici».
La normazione può quindi accelerare il cambiamento?
«Se fissi criteri e requisiti attenti alle tematiche sociali di inclusione ed equità, puoi orientare il cambiamento. In questo senso la normazione può fare la differenza, delineando un quadro di opportunità nell’ambito di una serie di principi valoriali che costituiscono una cornice di riferimento entro la quale muoversi. Il payoff di UNI è “Un mondo fatto bene” perché effettivamente tramite la normazione si possono definire criteri e requisiti per fare un mondo fatto bene. E in quest’ottica UNI agisce anche come soggetto moltiplicatore di conoscenza, perché con la UNITRAIN Academy promuove anche una formazione attenta alle tematiche di diversity e inclusion».