Capacità tecniche e cliniche non bastano. Per avere una classe dirigente femminile in futuro più numerosa e preparata nell’oncologia italiana le professioniste dirigenti devono sviluppare doti di comunicazione e leadership, nelle aziende ospedaliere così come in quelle di altra natura. È da questa convinzione che prende il via “Imagine”, iniziativa presentata dall’Associazione delle oncologhe italiane Women For Oncology Italy, nata nel 2015 come spin-off dell’ESMO Women for Oncology (W4O) e oggi presieduta da Rossana Berardi affiancata da Domenica Lorusso, Nicla La Verde e Laura Locati. Si tratta di 14 incontri formativi, svolti in presenza in tutta Italia o in modalità webinar, destinati ai professionisti dell’oncologia per confrontarsi con esperti su tematiche trasversali che rappresentano skill di crescita professionale e personale. I concetti chiave sono: competenza, leadership, creazione di valore e condivisione.
«Il percorso è aperto sia alle donne che agli uomini, per creare una classe dirigente senza gender gap, ma ispirata ai valori di merito. Un obiettivo che si può raggiungete solo credendoci insieme», spiega a INNLIFES Laura Locati, Dirigente medico di I° livello presso la Struttura di Oncologia Medica dei Tumori Testa e collo dell’Istituto nazionale dei Tumori a Milano e membro del consiglio direttivo di Women For Oncology Italy.
Dottoressa Locati, sono passati dieci anni dalla fondazione del chapter italiano dell’associazione. Com’è cambiata oggi la situazione delle oncologhe negli ospedali?
«Siamo nati nel 2015 come spin-off della società Women for Oncology, che fa parte della Società Europea di Oncologia Medica, un’associazione creata dagli oncologi per gli oncologi. La necessità di questa associazione è nata quando ci siamo resi conto che, nonostante l’elevato numero di iscritte alla Società Europea di Oncologia Medica, la presenza femminile nelle presentazioni orali, nelle sessioni dei congressi e nei ruoli apicali era minima. Siamo partite in nove, oggi siamo più di mille e riusciamo a coprire quasi il 90% delle regioni italiane. Da qui la riflessione: perché, nonostante il numero, la rappresentanza femminile era così scarsa nelle posizioni di vertice?».
Stando agli studi che circolano il 70% degli oncologi sono donne, ma solo il 15% ricopre ruoli dirigenziali. Perché questa disparità secondo voi?
«Le difficoltà delle donne nel mondo del lavoro riguardano molti settori e, tra i principali ostacoli, c’è il carico della famiglia. Ad esempio, durante la fase più dura della pandemia molte dottoresse sono rimaste a casa per occuparsi della famiglia e hanno pubblicato meno rispetto ai colleghi uomini. Abbiamo dati scientifici che lo dimostrano: mentre gli uomini erano impegnati a scrivere articoli su Covid, anticorpi e terapie, le donne erano assorbite da responsabilità domestiche. La crisi ha dunque acuito queste differenze».
Cosa volete fare per colmare questo gap?
«Il nostro obiettivo è fornire competenze trasversali che possano aiutarci nel percorso professionale come oncologhe. Non tutte dobbiamo diventare primarie o professoresse universitarie, ma dobbiamo poter far valere le nostre istanze e avere gli strumenti giusti, a fronte del fatto che la formazione universitaria non copre aspetti fondamentali come la comunicazione e il management sanitario. Gli ospedali oggi sono aziende con budget da gestire, specialmente in oncologia, dove i farmaci sono sempre più costosi. Anche il rapporto con i pazienti è fondamentale: dobbiamo occuparci di tematiche come sessualità e fertilità per le giovani pazienti, che spesso vengono trascurate».
Quindi il vostro scopo è formare donne consapevoli, preparate e pronte per ruoli di vertice?
«Esatto, ma per riuscirci abbiamo bisogno del supporto dei colleghi uomini. Non deve essere un’élite femminile ma un tema di inclusione. Solo così potremo davvero fare la differenza».
In altri settori, le donne che raggiungono posizioni apicali spesso non aiutano chi viene dopo di loro. Nel settore dell’oncologia avviene lo stesso?
«Ottima domanda ed è vero, il problema esiste. Tuttavia il faro deve sempre essere la meritocrazia: una donna non dovrebbe ottenere un ruolo solo per il suo genere, ma per le sue competenze. Purtroppo, rispetto agli uomini, dobbiamo lavorare il doppio per dimostrare il nostro valore. Per questo dobbiamo creare una cultura più inclusiva e meritocratica, iniziando ad esempio a formare chi verrà dopo di noi, ma non è una pratica diffusa. In sanità si vedono spesso situazioni in cui, quando un primario se ne va, si crea il vuoto perché non c’è stata una visione di continuità . Questo è un problema: dobbiamo individuare e valorizzare i talenti, indipendentemente dal genere».
I vostri incontri si concentrano molto sulla formazione anche per questo motivo?
«Esatto, puntiamo sia sulle soft skill, come leadership e comunicazione, sia su una formazione più tecnica. La comunicazione è fondamentale: molti pazienti cambiano ospedale perché la comunicazione con il medico non è adeguata e le denunce dei pazienti sono spesso legate a problemi di comunicazione. Se non si comunica bene, si crea un conflitto con il paziente. E noi vogliamo lavorare anche su questo aspetto, per migliorare il rapporto medico-paziente e la qualità dell’assistenza».