Dalle neurotecnologie impiantabili agli esoscheletri fino a sistemi di elettrostimolazione, le potenzialità applicative del settore della neuromodulazione sono numerose e in grado di aiutare le persone a riprendere il controllo del proprio corpo dopo un ictus, a superare problemi di sordità, a migliorare la gestione della malattia di Parkinson e tanto altro. L’Italia ha un ruolo di primo piano in questo mercato in continua evoluzione, pur dovendo affrontare tematiche quali il reperimento di fondi per la ricerca, la rimborsabilità e la scalabilità dei nuovi dispositivi, all’interno di un contesto in evoluzione normativa.
Ne abbiamo parlato con Silvestro Micera, Professore Ordinario di Bioelettronica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e all’École Polytechnique Federale de Lausanne, a margine dell’appuntamento nella rassegna GiovedìScienza a Torino Muoversi, parlare, vivere, dedicato alla tecnologia al servizio della riabilitazione.
Silvestro Micera, quali sono le novità più impattanti nell’ambito delle tecnologie per la riabilitazione, e quali i principali ambiti d’applicazione?
«Il panorama è in continua evoluzione, caratterizzato da diverse aree di sviluppo e approcci innovativi. Si è partiti dei robot riabilitativi, nati per migliorare le terapie post-ictus e lesioni midollari incomplete, e poi si è assistito a una progressiva penetrazione di tali dispositivi nel mondo salute, proponendosi di risolvere varie criticità, dalle difficoltà motorie alla gestione delle amputazioni di arti, dalla malattia di Parkinson alla sordità e molto altro.
Questi robot, seppur presenti e utili, mostrano limitazioni in termini di efficacia rispetto alle aspettative iniziali, spingendo verso una riflessione sul loro ruolo e utilizzo ottimale. Oggi, emerge una prospettiva più flessibile con l’introduzione dei robot soft, meno invasivi, che offrono una maggiore praticità e adattabilità ai pazienti. In parallelo, si osserva un interesse crescente verso le soluzioni impiantabili, come quelle inseribili direttamente nel midollo spinale per la gestione del dolore, che sono già diventate pratiche cliniche consolidate».
Verso quale direzione stiamo andando, dunque?
«Le prospettive future delineano un quadro complesso e dinamico, con una crescente attenzione – come potenziale punto di svolta – alla neuromodulazione, ossia il processo che interagisce con i processi neurologici attraverso stimoli elettrici e chimici. Gli investimenti da parte di venture capitalist, così come l’apertura di nuove aziende nel settore, indicano un rinnovato interesse verso approcci terapeutici non convenzionali, come la stimolazione del nervo vago per l’epilessia. Tuttavia, si prevede che nell’arco dei prossimi vent’anni si raggiungerà il picco di potenzialità nell’elettrostimolazione, evidenziando la necessità di esplorare alternative non elettriche come la stimolazione magnetica o acustica.
Questo scenario richiede uno sforzo congiunto nel campo della ricerca e dello sviluppo tecnologico. La creazione di laboratori dedicati, come quello di Torino e del San Raffaele di Milano, rappresenta un passo significativo verso l’integrazione di queste tecnologie in ambito clinico. Diventerà sempre più centrale anche l’adozione di approcci multidisciplinari che sappiano unire ricerca scientifica, sviluppo tecnologico e pratica clinica».
Qual è il ruolo di Neuralink, l’azienda fondata da Elon Musk, nel contesto internazionale delle neurotecnologie? Come si posiziona scientificamente rispetto ad altri concorrenti?
«Neuralink riveste un ruolo di rilievo nel panorama internazionale delle neurotecnologie, grazie al suo sistema innovativo di ricerca e sviluppo. La visibilità derivante dalla notorietà di Elon Musk contribuisce alla sua esposizione mediatica, ma ciò che rende veramente interessante l’azienda è la tecnologia che stanno sviluppando e la capacità di anticipare l’evoluzione del settore. Il loro approccio si distingue per l’impiego di sistemi robotici avanzati combinati con elettrodi di dimensioni molto ridotte: questo rende i dispositivi meno invasivi e più precisi rispetto ad altri, consentendo un numero di siti attivi di elettrodi significativamente superiore.
Inoltre, la capacità di utilizzare il sistema wireless anche al di fuori dell’ambiente clinico offre un notevole vantaggio pratico e una scalabilità difficile da raggiungere in altro modo. La presenza di aziende come Neuralink potrebbe essere un traino per aumentare l’interesse sul settore da parte di investitori privati, fornendo un supporto ai vari sistemi sanitari nazionali».
In termini di sostenibilità economica e di copertura finanziaria per mettere queste tecnologie a disposizione su larga scala, cosa possiamo aspettarci?
«Attualmente il finanziamento delle tecnologie neurologiche è supportato principalmente da investimenti pubblici e privati, con una crescente attenzione alla sostenibilità economica e alla copertura finanziaria per garantire l’accesso su larga scala. Occorre precisare che molte delle tecnologie neuroriabilitative sono state storicamente finanziate dal DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency), pur non per scopi militari diretti. Tra le sfide del prossimo futuro ci sarà quella di garantire che queste tecnologie diventino rimborsabili e accessibili a tutti i pazienti che ne potrebbero beneficiare.
L’Italia ha già fatto progressi significativi nel finanziare impianti neurotecnologici tramite il Servizio Sanitario Nazionale, ma rimangono ostacoli regolatori e finanziari da superare, soprattutto per lo sviluppo di nuove tecnologie. Del resto, anche solo l’iter di approvazione della Food and Drug Administration statunitense, o l’ottenimento del marchio CE, comporta uno sforzo economico molto importante. Nel futuro, ci si può aspettare una maggiore attenzione alla ricerca di modelli di finanziamento sostenibili, come la combinazione di investimenti pubblici e privati oppure il coinvolgimento di compagnie assicurative.
Inoltre, il progresso nella regolamentazione e nell’approvazione dei dispositivi medici potrebbe facilitare l’ingresso di nuove tecnologie sul mercato, consentendo una maggiore diffusione e adozione. Tuttavia, è importante affrontare anche la questione della scalabilità: sviluppare soluzioni che partendo da nicchie possano essere adattate e applicate in modo ampio, così che ne possa beneficiare un numero maggiore di pazienti».
Qual è la posizione dell’Italia nel panorama globale delle neurotecnologie? Ci sono degli elementi che fanno da collo di bottiglia allo sviluppo?
«L’Italia mostra una presenza significativa nel panorama internazionale delle neurotecnologie, con numerosi centri di ricerca di spicco. Si evidenzia un’eccellenza in settori come la neuroprotesica e la robotica riabilitativa, con centri come la Scuola Sant’Anna a Pisa e gruppi a Genova e Milano che si distinguono per la ricerca avanzata in protesica e neuroingegneria. La collaborazione interistituzionale e la capacità di attrarre finanziamenti, sia nazionali sia internazionali, rappresentano un punto di forza per il nostro paese. Anche dal punto di vista del numero potenziale di pazienti, l’Italia ha un bacino d’utenza più ampio rispetto ad altri come la Svizzera, che conta meno abitanti della Lombardia.
Tuttavia, alcune sfide influenzano lo sviluppo di queste tecnologie e complicano le collaborazioni con altre realtà di spicco a livello globale. Da un lato la burocrazia e la complessità normativa rappresentano degli ostacoli per l’approvazione e l’implementazione dei protocolli clinici, dall’altro l’esaurimento dei fondi del PNRR potrebbe essere un passaggio critico. Inoltre, sebbene vi sia una solida base di ricerca, è necessario un maggiore coordinamento e più sinergia tra i centri, per massimizzare l’impatto e la visibilità internazionale dell’Italia nel campo delle neurotecnologie. La capacità di capitalizzare la numerosa popolazione italiana per la ricerca clinica potrebbe essere sfruttata come un vantaggio strategico, ma richiede investimenti mirati e strutture di supporto adeguate».