Si fa presto a parlare di rivoluzione telemedicina. Perché anche se la tecnologia c’è, e operatori sanitari e pazienti sono pronti a usufruirne, manca quello che a Pillon piace definire “governo clinico”. Poche settimane fa Sergio Pillon, il vice presidente dell’AiSDeT ne ha parlato alla riunione dell’Intergruppo Parlamentare Sanità Digitale e Terapie Digitali. Senza giri di parole arriva subito al cuore del problema: “Abbiamo bisogno di Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali (PDTA) ad hoc”.
Professore, che cosa intende per PDTA per la telemedicina?
“Il governo clinico della telemedicina. Mi spiego meglio: oggi abbiamo la possibilità di fare visite, consulti, monitoraggi e di offrire assistenza a distanza. Ma chi e come decide quando ricorrere a questi strumenti? Faccio un esempio concreto. Il signor Mario Rossi fa le analisi e scopre di avere il diabete. In questi casi abbiamo dei PDTA codificati ormai da moltissimo tempo che aiutano il medico nell’indicare al paziente il giusto percorso di cura: visita dal diabetologo, terapie, accertamenti, ecc. La telemedicina si può inserire in vari modi in questo percorso. Ma chi ha l’obbligo e l’onere di decidere cosa e chi curare con gli strumenti della telemedicina? Necessariamente il clinico. Quindi è fondamentale il coinvolgimento dei clinici ed è quello che sostanzialmente abbiamo chiesto con il documento condiviso da 16 società scientifiche e sanitarie i presentato lo scorso maggio a Roma”.
Quali sono gli strumenti della telemedicina?
“Con il termine generico di telemedicina ci riferiamo in realtà a quattro tipi diversi di atti medici e sono: televisita, teleassistenza, telemonitoraggio e teleconsulto. Sono delle innovazioni tecnologiche importanti e in pandemia abbiamo potuto saggiarne le potenzialità. Ma come tutte le innovazioni tecnologiche devono essere recepite dai medici e devono essere inserite nei percorsi di cura. È stato così per l’ecografia in gravidanza: una volta inserita tra gli esami che una donna deve fare in gravidanza nessun medico si prende la responsabilità di fare diversamente. È la stessa cosa per la telemedicina”.
Come si costruisce un PDTA?
“Con l’aiuto delle società scientifiche e professionali ed è questo che abbiamo sottolineato nel documento. È ad esempio il diabetologo che deve stabilire se un paziente può fare, in specifiche condizioni, un telemonitoraggio o una televisita, e quindi stabilire cosa è o non è rimborsabile. E questo vale per ogni patologia. Il Governo dovrebbe poi prendere atto di quanto stabilito dai medici”.
Quali soni le conseguenze dell’assenza di PDTA specifici per la telemedicina?
“Che non viene valorizzata sia in termini clinici sia economici, oltre a non essere utilizzata in modo omogeneo su tutto il territorio. In passato, AGENAS ha fatto una proposta di PDTA sulla sclerosi multipla che include anche la telemedicina. Le aziende sanitarie, ognuna più o meno per proprio conto, cercano di inserire queste prestazioni. Ma non c’è nessun obbligo e ci sono ancora moltissime lacune, a partire dal fatto che il teleconsulto non è valorizzato in termini economici, ma che lo è solo la televisita. E questo non è così per tutte le regioni. Insomma, c’è una gran confusione”.
Il teleconsulto è la Cenerentola della Telemedicina?
“Benché sia fondamentale per l’interazione del medico di medicina generale con lo specialista, non c’è nessuna regolamentazione. Viene piuttosto visto come un atto normale tra medici e quindi non si pensa che debba essere invece rimborsabile. Ma ad esempio nella rete dell’emergenza neurologica in Regione Veneto si faceva esattamente il contrario: era previsto il teleconsulto dall’azienda sanitaria hub verso lo spoke con una valorizzazione per esecuzione di 100 euro. Le società scientifiche non sono d’accordo sul fatto che il teleconsulto non sia monetizzabile e rimborsabile. C’è una tariffa solo per le tre principali patologie in cui si usa la telemedicina, cioè lo scompenso cardiaco, il diabete e la BPCO, ma per moltissime altre no”.
Secondo lei è una questione di risorse? Quanto costano i PDTA?
“A mio avviso non è affatto un problema di risorse. In primis perché ci sono dei fondi con questa finalità nel PNRR, poi sono convinto che un lavoro di questo tipo possa essere sostenuto anche dalle case farmaceutiche come è avvenuto in passato. Non è quindi una questione di risorse ma di volontà e di competenze. È fondamentale che si siedano a un tavolo le società scientifiche affinché si definisca per quale malattia, su quali pazienti e in che specifiche condizioni i quattro strumenti della telemedicina – televisita, teleconsulto, telemonitoraggio e teleassistenza – siano opportuni e quindi anche rimborsabili. Solo ai medici può essere data la responsabilità di stabilire quale sia la scelta migliore per i pazienti. Del resto con la TAC è stato così: non è all’ingegnere che è spettato il compito di decidere come e quando usarla, ma al medico dopo averne compreso appieno i vantaggi. Io sono un angiologo e la mia generazione di esperti di malattie circolatorie ha visto la nascita dell’angioplastica con gli stent. Quando la inventarono non c’era rimborsabilità, ma con il passare del tempo, dato che questa procedura evita interventi chirurgici che sono molto più importanti per il paziente, le associazioni hanno cominciato a protestare rivolgendosi al Governo per chiedere di estenderne l’accesso, prevedendone la rimborsabilità. Quindi per la televisita, il teleconsulto, il telemonitoraggio e la teleassistenza, il decisore pubblico dovrà creare una tariffa per rendere rimborsabile la prestazione nelle strutture in base alle indicazioni dei professionisti”.
Siamo dunque ben lontani da una telemedicina “democratica” e diffusa in modo omogeneo su tutto il territorio. Ma la buona notizia, almeno da quanto emerge dalle parole di Pillon, è che sappiamo cosa va fatto. Serve solo la volontà politica di affidarsi alle competenze, cosa che però non va data per scontata.