L’applicazione della Medicina di Genere nella Ricerca e negli studi clinici assume un’importanza cruciale per diversi aspetti, che riguardano sia le differenze biologiche di sesso tra uomini e donne sia fattori legati al genere e all’ambiente circostante. La letteratura in materia ha già ampiamente dimostrato che gli organismi maschili e quelli femminili possono comportarsi in modo diverso e reagire differentemente allo stesso stimolo, ma ad oggi l’applicazione della medicina di genere negli studi clinici non è ancora una prassi acquisita universalmente. Per questo motivo l’Istituto Superiore di Sanità, attraverso l’Osservatorio sulla Medicina di Genere, ha redatto le Linee di indirizzo per l’applicazione della Medicina di Genere nella Ricerca Preclinica, Epidemiologica e Clinica, raccogliendo le raccomandazioni rivolte ai ricercatori in un documento pubblicato dalla rivista scientifica internazionale Journal of Personalized Medicine. Elena Ortona, Direttrice del Centro di Medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità e Componente della Segreteria Scientifica dell’Osservatorio sulla Medicina di Genere, approfondisce le caratteristiche di questo studio e le motivazioni che hanno portato alla realizzazione del lavoro.
Dott.ssa Ortona, chi ha collaborato alla definizione di queste Linee di indirizzo e qual è stato l’approccio seguito?
«Il documento è stato redatto dall’Osservatorio sulla medicina di genere dell’Istituto Superiore di Sanità, all’interno del quale esistono diversi gruppi di lavoro. Fra questi gruppi di lavoro, uno in particolare è dedicato alla ricerca e all’innovazione scientifica: diversi esperti hanno pensato che per promuovere l’applicazione della medicina di genere tra i ricercatori e i clinici fosse necessario definire delle raccomandazioni per la ricerca, un protocollo al quale attenersi. Per chi lavora nel campo della ricerca è fondamentale poter contare su linee d’indirizzo e su una serie di raccomandazioni per prestare attenzione alle differenze di sesso e di genere. Ovviamente quando si parla di sesso si intendono i fattori biologici, quando invece ci si riferisce al genere si prendono in considerazione tutti quegli aspetti socioculturali, ambientali, legati agli stili di vita, all’etnia o alla religione, che creano delle differenze tra uomo e donna nella ricerca. Quindi si è partiti con un’analisi di quali potessero essere i fattori che determinano le differenze di sesso e di genere, da quelli genetici a quelli ormonali o a quelli legati al microbioma, per poi proseguire con la descrizione di tutti gli aspetti legati al genere citati prima, che riguardano anche l’ambiente nel quale si vive. Abbiamo cercato di indicare tutti quei fattori che possono creare differenze e dei quali quindi bisognerebbe tenere conto in uno studio».
Esisteva già una letteratura a riguardo?
«Sì, c’è una letteratura abbastanza consolidata, soprattutto in alcuni campi in cui ci sono già dati più evidenti, pensiamo agli studi sulle malattie cardiovascolari o sui tumori, anche sulla risposta a determinate terapie. Oppure ancor più solida è la letteratura che riguarda lo studio delle cellule, e l’importanza di definire il sesso degli organismi da cui provengono. È noto, infatti, che le cellule che derivano da organismi femminili hanno una capacità di sopravvivenza maggiore rispetto a quelle maschili che sono meno resilienti. Lo stesso è evidente anche per quanto riguarda gli studi sugli animali, rispetto ai quali è veramente molto importante differenziare tra animali di sesso maschile e di sesso femminile. Questo, però, non si fa quasi mai, in genere in tutti gli studi si utilizzano animali di sesso maschile proprio per evitare quella variabilità causata dalla differenza dei cicli ormonali. Negli animali addirittura si è visto che esiste una diversa risposta al dolore anche se l’operatore che compie gli esperimenti è di sesso maschile o femminile: gli animali sembrano sentire più dolore se l’operatore è di sesso femminile. Dunque, i dati in letteratura erano già consolidati; il nostro obiettivo era quello di trasferire queste conoscenze in una serie di raccomandazioni per i ricercatori che si approcciano alla realizzazione di un progetto di ricerca. Oltretutto era stato proprio uno studio coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità a dimostrare per la prima volta la differenza relativa alla sopravvivenza e alla mortalità tra cellule di organismi femminili e maschili. In questo ambito l’epidemiologia ha fatto fare un grande passo in avanti rispetto all’importanza di considerare il sesso e il genere come determinanti di salute, disaggregando i dati per sesso, e rendendo in questo modo evidente che molte patologie possono avere importanti differenze in termini di incidenza, di manifestazioni cliniche, di sopravvivenza e di risposta alle terapie».
Dunque, l’applicazione della medicina di genere risulta decisiva anche per capire il possibile sviluppo di una patologia?
«Esatto. Ad esempio, l’Istituto ha effettuato delle ricerche su biomarcatori che potessero essere predittivi dell’andamento della severità del Covid, studiando la risposta dei pazienti al momento dell’ospedalizzazione. Se non avessimo disaggregato per sesso i dati nello studio non avremmo potuto scoprire che alcuni di questi marcatori erano in grado di predire la severità della malattia in un sesso, ma non nell’altro. Lo stesso vale per analizzare l’efficacia di un farmaco o la sua tossicità: per determinare questi aspetti è necessario arruolare negli studi sia uomini sia donne, ma questo approccio purtroppo non è un’abitudine. Una stessa sostanza può avere effetti differenti nel due sessi, è importante studiarli attraverso questa lente. Per questo abbiamo voluto stilare una serie di raccomandazioni che magari erano presenti in maniera sparsa in diverse pubblicazioni, per dare una sorta di linea di indirizzo sull’importanza di tenere conto nei protocolli di ricerca dei determinanti di sesso e genere».
In questi anni è cresciuta l’attenzione alla medicina personalizzata e di precisione. Si può dire lo stesso per la medicina di genere? Come è possibile trasferire queste raccomandazioni nella pratica quotidiana?
«Io ritengo che sia stato fatto moltissimo in questi ultimi anni per la diffusione della medicina di genere, anche se bisogna ancora lavorare molto e fare moltissima formazione, sia a livello universitario sia per quanto riguarda l’aggiornamento del personale sanitario; anche nella ricerca, nel caso specifico. Ovviamente tenere conto di tutti gli aspetti individuati dalle Linee d’indirizzo richiede innanzitutto un numero maggiore di soggetti per gli studi – che siano animali o esseri umani – quindi anche un costo più elevato per gli esperimenti: per raggiungere una significatività statistica disaggregando i dati per sesso, infatti, è necessario raddoppiare tutto. La cosa importante è che oggi molte tra le più importanti riviste internazionali – pensiamo a Nature o a Lancet – hanno inserito nelle istruzioni per gli autori la raccomandazione di presentare i risultati del proprio studio disaggregati. Questo secondo me è un passo molto importante che dovrebbe essere inserito nelle istruzioni per gli autori di tutte le riviste, perché sappiamo che i ricercatori e le ricercatrici, una volta che hanno ottenuto dei dati, li devono pubblicare per diffonderli nella comunità scientifica. Un altro passo molto importante è la sensibilizzazione dei comitati etici che devono approvare i vari studi prima della pubblicazione. Anche su questo stiamo lavorando per cercare di sensibilizzare i ricercatori sul fatto che tener conto dei determinanti di genere e di sesso non è solo un dovere scientifico, ma anche etico. L’obiettivo deve essere quello di mirare a una condizione di salute sempre più equa e appropriata per ogni persona».