Sul filo del rasoio cinquanta europarlamentari provenienti soprattutto dal gruppo Socialisti e Democratici (con una nutrita rappresentanza italiana), seguiti da altri eurodeputati di diverse nazionalità e partiti, sono riusciti ad inserire la proposta di creare una European Medicines Facility tra gli emendamenti al regolamento della legislazione farmaceutica europea. L’idea della struttura, promossa da Premi Nobel e che farebbe da contraltare al National Health Institute degli Stati Uniti, era scomparsa dalla bozza del testo.
Escluso in commissione ENVI (come abbiamo spiegato qui), l’articolo 40 che istituisce la European Medicines Facility torna quindi sul tavolo per la votazione in Parlamento Europeo nella plenaria di oggi e domani, dove gli eurodeputati si esprimeranno sulle proposte di revisione della legislazione farmaceutica. La proposta della European Medicines Facility, definita “CERN della salute”, mira a promuovere le priorità sanitarie dell’UE e a guidare la ricerca e lo sviluppo di farmaci, soprattutto quelli trascurati dall’industria privata o con prezzi insostenibili. Florio rivela quali sono le resistenze alla creazione dell’infrastruttura, quali invece sarebbero a suo giudizio i “grandi vantaggi” nella sua realizzazione, e quale la governance.
Prof Florio, qual è lo scopo della European Medicines Facility e chi fa resistenza alla sua creazione?
L’Europa, a differenza degli USA, non ha un’entità unica che coordina i progetti di ricerca e sviluppo biomedico, affidandosi invece a programmi minori come Horizon Europe e a divisioni come la European Research Area. Un approccio diverso hanno gli Stati Uniti, dove esistono istituzioni come il National Institute of Health, e questo mette l’Europa in svantaggio nella ricerca biomedica, perché la mancanza di coordinamento e armonizzazione è un grande ostacolo all’innovazione. La European Medicines Facility colmerebbe questo vuoto.
Le principali resistenze vengono da un lato dall’inerzia degli Stati Membri, dalla loro tendenza ad operare in modo indipendente – ricordiamo il tentativo italiano di sviluppare autonomamente un vaccino COVID-19 – e ciò riflette la difficoltà generale dell’UE nel passare da azioni nazionali a iniziative più coordinate a livello sovranazionale. Dall’altro lato, si è verificato un incidente durante le discussioni sulla normativa farmaceutica: la proposta della Facility è stata associata al tema dei voucher trasferibili, su cui l’industria stava facendo pressione. Associare questi due ambiti non è stato appropriato, poiché la ricerca della European Medicines Facility procederebbe indipendentemente, senza interferire con gli incentivi alle aziende.
Voi insieme a molti scienziati sostenete che la Facility è indispensabile per garantire l’accesso alle cure, perché?
In 20 anni, i sistemi sanitari pubblici si troveranno facilmente nell’incapacità di acquistare nuovi medicinali a causa dei loro elevati costi. Di conseguenza, si potrebbe verificare una carenza di farmaci, soprattutto in quei settori meno remunerativi per le aziende, che tendono a investirci solo se possono ottenere ampi margini di profitto per mitigare il rischio. Una possibile soluzione a questo scenario potrebbe essere l’adozione di un modello no profit, con il vantaggio che le innovazioni verrebbero rese disponibili ai sistemi sanitari dei vari paesi al costo. A questa infrastruttura spetterebbe il compito di stabilire un piano per i prossimi 20 anni, focalizzandosi su progetti specifici come, ad esempio, la lotta alla resistenza ai farmaci da parte dei patogeni, una priorità già riconosciuta da organizzazioni internazionali quali l’OMS. Si dovrebbe quindi creare un’agenda prioritaria e poi supportarla con infrastrutture dedicate.
Come si può immaginare la Facility, in relazione ai centri di ricerca già esistenti, sparsi in UE?
Per quanto riguarda i centri di ricerca in Europa, come quelli in Italia, Francia e Germania, si pone la questione su come organizzare al meglio l’infrastruttura per la ricerca biomedica. Questa potrebbe essere concepita come una rete policentrica, promuovendo un sistema di collaborazione coordinata piuttosto che il modello attuale, spesso frammentato e con risorse limitate che impediscono il progresso dei progetti. L’idea non sarebbe quella di replicare infrastrutture esistenti, ma piuttosto di creare un’organizzazione con una direzione unitaria che si avvalga di molteplici centri di eccellenza distribuiti nei vari stati, ciascuno specializzato in diversi ambiti della ricerca.
E in termini di governance?
La struttura di governance proposta prende ispirazione dai modelli dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e del CERN, caratterizzati da una doppia rappresentanza. Da una parte, abbiamo un Consiglio in cui siedono i rappresentanti dei governi degli stati membri, e dall’altra, un organo che riflette la voce della comunità scientifica. Ad esempio, la Direttrice Generale del CERN Fabiola Gianotti è stata nominata dal consiglio scientifico del CERN con il benestare del Consiglio Rappresentativo degli Stati. Similmente, l’ESA si distingue per la sua natura policentrica, avendo sedi sparse in diversi paesi europei, ma mantenendo una governance che valorizza fortemente il contributo scientifico. Questo modello consente ai ricercatori di identificarsi con l’organizzazione su una scala che supera le affiliazioni nazionali o istituzionali locali, similmente a come i professionisti della NASA non si identificano primariamente con il loro stato di provenienza, ma con la missione dell’agenzia. L’obiettivo principale è la realizzazione concreta di progetti, dove le priorità sono stabilite dal raggiungimento dei risultati prefissati piuttosto che da equilibri di natura diversa.
E quale sarebbe l’impatto sull’industria farmaceutica?
Nei settori dove l’investimento industriale è scarso, l’impatto di un’infrastruttura dedicata alla ricerca su tematiche prioritarie sarebbe minimo per l’industria. Anzi: tale infrastruttura, una volta definite le sue aree di interesse, cercherebbe attivamente collaborazioni con il settore privato. Un esempio riguarda l’ultimo vaccino COVID-19 approvato dall’EMA in Europa, sviluppato da Hipra, un’azienda (spagnola, ndr) originariamente del settore veterinario, con un investimento relativamente modesto. Ciò dimostra che è possibile una sinergia efficace tra ricerca pubblica e iniziative industriali, selezionando partner adeguati per ogni progetto specifico. Questo è anche un modo di rafforzare l’industria europea, un modo di fare politica industriale europea.