I nuovi Lea (Livelli essenziali di assistenza) entreranno in vigore dal 30 dicembre 2024, a seguito dell’intesa in Conferenza Stato Regioni sul nuovo decreto del ministero della Salute, che modifica il decreto del 23 giugno 2023, noto come “Decreto Tariffe”, e aggiorna dopo più di venticinque anni il Nomenclatore delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e di assistenza protesica.
L’entrata in vigore del Decreto Tariffe è essenziale perché assicura su tutto il territorio nazionale la piena erogazione dei nuovi Lea (Dpcm 2017), superando le disomogeneità assistenziali tra i cittadini di diverse Regioni.
Un’attesa lunga sette anni, che rischia dunque di rendere l’aggiornamento dei Lea obsoleto vista la velocità con la quale corre l’innovazione in campo medico e sanitario. La notizia è senza dubbio positiva e segna un punto di svolta, soprattutto per le Regioni in piano di rientro che in questi anni non hanno potuto garantire determinate prestazioni, ma una riflessione circa l’efficienza di questo meccanismo è d’obbligo. Ne abbiamo parlato con il Prof. Vincenzo Salvatore, Avvocato e Professore Ordinario di Diritto dell’Unione Europea presso l’Università degli Studi dell’Insubria, già Direttore del Servizio giuridico dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) dal 2004 al 2012.
Prof. Salvatore, come dobbiamo accogliere la notizia dell’entrata in vigore dei nuovi Lea?
«Sicuramente si tratta di un passo in avanti importante in termini di aggiornamento rispetto all’evoluzione delle conoscenze e delle soluzioni terapeutiche disponibili sul mercato. È chiaro, però, che si tratta di un Nomenclatore definito nel 2017; dunque, nel frattempo, le Regioni non in piano di rientro si erano già mosse per garantire la rimborsabilità di quelle prestazioni e terapie che non erano ancora inserite nei Lea, sulla base di un apprezzamento discrezionale e una valutazione delle esigenze dei pazienti. I tempi per la modifica dei Lea sono oggettivamente lunghi, è una procedura molto complessa e questo porta ad avere frequentemente un nomenclatore obsoleto».
Effettivamente mancano alcune prestazioni fondamentali come ad esempio i test NGS. Ce ne sono altre?
«Mancano sicuramente i test NGS, fondamentali per determinare l’eleggibilità dei pazienti alle terapie innovative e salvavita in oncologia. Mi pare, però, che manchino anche alcuni test sulla diagnosi prenatale e sulle mutazioni geniche che rientrano ovviamente in un piano di prevenzione generale, quindi anche poi di contrazione dei costi del SSN sul lungo periodo. Infatti, se si riesce a intervenire in anticipo su pazienti affetti da determinate patologie, questo comporta un risparmio della spesa pubblica negli anni a venire. Inoltre, non mi pare che siano incluse ancora una volta le terapie digitali. Il problema riguarda soprattutto i dispositivi medici che accedono a tecnologie a più alta velocità di ammodernamento e di evoluzione. È chiaro che questo ritardo finisce per privare una pluralità di pazienti di soluzioni all’avanguardia che purtroppo non vengono catturate da questo monitoraggio, finalizzato all’aggiornamento del Nomenclatore. E credo che siano tanti i settori in cui questo si è verificato».
Il meccanismo di aggiornamento dei Lea può dirsi, dunque, ancora efficace?
«Penso che il sistema sia valido nell’impostazione ma sconta una serie di criticità nei tempi di elaborazione. Credo che quello su cui si debba imporre un’accelerazione è sul meccanismo di valutazione di HTA: sarebbe necessario poter disporre di un organismo specificamente deputato a fare valutazioni HTA, che oggi in Italia non esiste visto che questo compito viene portato a termine prevalentemente da AIFA, la quale poi si deve occupare anche di prezzi e rimborsi. Se invece avessimo un organismo come il NICE inglese, staccato dal ministero e dall’agenzia regolatoria, che si limitano a dare indicazioni e raccomandazioni di HTA, questo potrebbe innestare un processo di aggiornamento molto più rapido. Avremmo infatti un input esterno qualificato che porterebbe probabilmente poi alla necessità solamente di una modifica del Decreto ministeriale ma su presupposti che sarebbero già accertati».
Un altro tema legato all’aggiornamento dei Lea è ovviamente quello delle risorse investite nel Servizio Sanitario Nazionale. Come può l’Italia mantenere il sistema sanitario pubblico considerati gli alti costi dell’innovazione?
«Premesso che non ho una risposta risolutiva, credo che il nostro sistema sanitario sia uno dei più avanzati a livello mondiale per quanto riguarda la tutela della salute dei cittadini, indipendentemente dalle condizioni economiche in cui si trovano, perché è un sistema universale, gratuito, e credo che tale dovrebbe rimanere. Allo stesso tempo però oggi all’interno del Servizio Sanitario Nazionale percepisco molta insoddisfazione non solo da parte dei cittadini, ma anche da chi opera al suo interno, visto che abbiamo situazioni in cui il personale è sotto-staff, o è costretto a lavorare con ritmi ben lontani dall’essere adeguati. Pensiamo inoltre ai livelli retributivi, che non sono competitivi rispetto a quanto viene offerto dal privato o da realtà a noi vicine (si pensi al caso della Svizzera che sta drenando molto personale dalla Lombardia). Ovviamente, ed è facile dirlo a livello teorico, credo che si debba investire di più nella sanità, se ci si crede. Noi siamo un Paese che a livello europeo è agli ultimi posti per investimento nel sistema sanitario, indipendentemente dal fatto che sia pubblico o privato. Una soluzione potrebbe essere quella di impegnare lo Stato in maniera più significativa a partecipare alle attività di ricerca e sviluppo di nuove soluzioni terapeutiche. Perché è chiaro che se si sviluppano forme di partenariato pubblico-privato dove lo Stato promuove la ricerca e interviene a fianco delle aziende per offrire soluzioni terapeutiche innovative, poi anche il costo di queste prestazioni diminuisce nel medio-lungo periodo. Ovviamente chi investe in ricerca e sviluppo troverebbe già parte della compensazione nella compartecipazione dello Stato».
Senza dubbio il PNRR sta rappresentando un grande investimento per la sanità, sia nel campo della ricerca sia per quanto riguarda le strutture. Quali sono, fino a ora, gli obiettivi raggiunti?
«Il PNRR ha garantito un’iniezione di risorse che non si era mai registrata in passato, soprattutto per quanto riguarda la Missione Sei, dedicata alla Salute. Ci sono molte cose che hanno funzionato, per quanto mi riguarda, e altre meno. Ad esempio, l’obiettivo di realizzare le Case della Comunità non sembra assistito da una programmazione adeguata e da una valutazione di impatto che forse avrebbe dovuto essere fatta prima di avviare questo esercizio. Però penso ad altri obiettivi previsti dalla Missione Sei che sono meritevoli di attenzione e che si stanno realizzando: i processi di digitalizzazione, la telemedicina, la farmacia di servizi, la possibilità di avere percorsi di vigilanza sull’aderenza terapeutica da remoto, il teleconsulto, l’assistenza a 15 minuti da casa attraverso la farmacia per una serie di prestazioni a distanza. Tutto questo, ovviamente, è finalizzato anche a decongestionare l’accesso al sistema ospedaliero e quindi a deflazionare l’emergenza dei pronti soccorsi che oggi sono allo stremo delle forze. Gli obiettivi individuati dal PNRR hanno rappresentato un’accelerazione importante nell’aggiornamento dei sistemi di erogazione delle prestazioni sanitarie, ma non tutto forse è stato realizzato attraverso un adeguamento nell’attuazione di queste prestazioni, attraverso un processo di studio e di valutazione d’impatto che il perseguimento di alcuni obiettivi avrebbe richiesto».