Il 7 aprile torna la Giornata Mondiale della Salute, un’occasione che, nel contesto italiano, suscita riflessioni profonde. L’accesso alle cure e all’assistenza, un tempo considerato un diritto scontato, è ormai da tempo messo in discussione, e coloro che ne sono più consapevoli spesso sono anche quelli con minori risorse economiche. Eppure, la presenza di strumenti avanzati, come la tecnologia e l’intelligenza artificiale, farebbe pensare che un sistema sanitario (che se ne dota) non possa che diventare sempre più efficiente. Il nostro Paese invece sta lentamente scivolando verso livelli di assistenza sanitaria paragonabili a quelli della Grecia, distanziandosi sempre più marcatamente da paesi come Francia e Germania. Se c’è ancora tempo per invertire la rotta, quali azioni bisogna avere la volontà di intraprendere?
Il Presidente dell’Associazione Italiana Oncologia Medica Francesco Perrone (che è anche Direttore dell’Unità Sperimentazioni Cliniche dell’Istituto Nazionale Tumori di Napoli IRCCS Fondazione G. Pascale), uno dei 14 grandi nomi che in questi giorni hanno lanciato un appello all’Italia per chiedere azioni a difesa del diritto alla salute e del SSN, interviene per spiegare, a suo giudizio, quali sono state la cause che hanno minato il nostro sistema e come si può intervenire. Una ricetta semplice, dopotutto, che però implica ammissioni, coraggio nelle scelte, e soprattutto azioni, anche supportate dal mondo medico. Il gruppo dei 14, tra cui compaiono anche il Premio Nobel Giorgio Parisi, Silvio Garattini e Franco Locatelli (ma sembra che il numero stia crescendo), ha ormai creato un connubio da cui ci attendiamo presto nuovi interventi. Ma nessuna strumentalizzazione politica, per favore, chiede Perrone: il nostro sistema sanitario ha cominciato il suo declino diversi anni fa.
Dottor Perrone, quale è il principale nemico del Sistema Sanitario Italiano?
È evidente che il sistema di gestione federale, affidando molte responsabilità alle singole regioni, ha contribuito al risultato che vediamo oggi. Inizialmente, poteva sembrare avere effetti positivi sulla gestione dell’assistenza sanitaria. Tuttavia, nel lungo termine, ha compromesso la capacità del Servizio Sanitario Nazionale di concentrarsi sulla prevenzione primaria e sulle attività correlate, relegandole a pochi operatori specializzati. La mancanza di un approccio uniforme ha comportato la necessità di identificare meccanismi organizzativi e politiche gestionali per complessi processi come lo screening di massa della popolazione. Questo ha portato alcuni ad affrontare la sfida con risultati mediocri, mentre altri hanno rinunciato. È evidente che questo modello non funziona.
La gestione regionalizzata della sanità ha anche mostrato segni di inefficienza. In alcuni casi si spende più del necessario, in altri si verificano sovrapposizioni inutili. È chiaro che dobbiamo riconsiderare il nostro approccio alla gestione del Servizio Sanitario Nazionale.
Inoltre, il senso della competizione tra le regioni è un male grave, che fa fallire il nostro apparato.
Lei cita la competizione tra Regioni come qualcosa di negativo. Nelle competizioni di solito ci sono vincitori. Qualcuno starà pur traendo beneficio…
Nessuno vince. Quanto più le Regioni, ad esempio, si concentrano sull’attrarre pazienti da fuori, tanto più rischiano di perdere il legame con il proprio territorio. È un dato di fatto che i poveri, circa l’8,5% della popolazione e pari a 5 milioni e mezzo di cittadini, non siano concentrati solo nel Sud, ma si trovino anche nelle regioni settentrionali; nonostante vivano in regioni ricche, molti di loro non riescono ad accedere ai servizi sanitari. Questa situazione può essere emotivamente più difficile da affrontare rispetto alle regioni meno sviluppate, dove la mancanza di servizi è spesso attesa. Regione Lombardia ha investito moltissimo nei centri di eccellenza. È prima in Italia nella capacità attrattiva di pazienti da altre regioni, ma non ha una rete oncologica. Adesso si sta lavorando a fare delle reti di patologia. Sono cose diverse. La rete oncologica permette una presa in carico del paziente i tempi più brevi.
L’autonomia delle Regioni porta quindi a paradossi, minando il diritto alla salute?
Se si esamina l’ultimo rapporto sui numeri del cancro di AIOM, si nota che la Lombardia, negli ultimi anni, non fornisce più dati sulla diffusione degli stili di vita, fattori di rischio per il cancro. Nelle mappe dell’Italia presenti nel rapporto, le regioni sono colorate in base alla gravità dei fattori come fumo, obesità, consumo di alcol e sedentarietà. La Lombardia, tuttavia, appare sempre in bianco, senza alcun colore associato. È sorprendente che la regione più grande d’Italia, con un contributo significativo ai casi di cancro e numerosi problemi legati all’inquinamento, non raccolga più dati all’interno di progetti gestiti dall’Istituto Superiore di Sanità.
C’erano due premesse fondamentali del federalismo sanitario. La prima riguardava l’esistenza di una forte guida centrale che avrebbe garantito un equo sviluppo organizzativo nelle varie regioni. La seconda premessa implicava che tutti partissero dallo stesso punto, con i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) a costituire il punto di riferimento comune da cui progredire. In teoria, tutti avrebbero dovuto lavorare per raggiungere questi livelli, con l’autonomia di ciascuna regione a delineare le modalità di implementazione. Tuttavia, questa visione è durata poco, poiché presto i LEA sono stati trasformati in uno strumento di valutazione. Se una regione non avesse raggiunto i LEA, anziché offrire supporto per migliorare, sarebbe stata penalizzata. Non solo si è continuato a non raggiungere gli obiettivi, ma sono state applicate misure punitive quali la riduzione dei finanziamenti e l’imposizione di piani di rientro. Credo che almeno 6-7 regioni siano state coinvolte in questo processo.
In quali azioni vede la possibilità di ricostituire il SSN?
È importante che le forze collettive comprendano che questa modalità di gestione dei LEA non è vantaggiosa per nessuno. Bisogna quindi riconsiderare il modo in cui vengono applicati i LEA e trovare soluzioni che siano realmente efficaci per migliorare il Sistema Sanitario.
È indubbio che alcune buone pratiche siano emerse in alcune Regioni, ma personalmente ritengo che la presenza di queste pratiche isolate non sia più sufficiente. Non sono interessato alle singole buone pratiche, ma desidero vedere una diffusione generalizzata di pratiche di qualità che superino una soglia minima di garanzia. Serve dunque un Governo centrale che possa coordinare e agevolare il miglioramento e che affronti il problema della gestione regionalizzata della sanità. È evidente che questo approccio porta ad inefficienze, sprechi e sovrapposizioni di servizi. La frammentazione e la moltiplicazione delle strutture non contribuiscono ad un sistema sanitario efficiente. Potremmo quindi esplorare modelli che favoriscano una maggiore coesione e collaborazione tra le regioni, garantendo al contempo una migliore gestione delle risorse a livello nazionale.
E dal punto di vista del finanziamento alla Salute? Germania e Francia dedicano circa il 10% del PIL, noi il 6,5%.
Su questo tema, è necessario agire. Potremmo prendere in considerazione l’idea di fissare un limite alla spesa sanitaria, anziché lasciare che ogni governo decida arbitrariamente come e quanto investire ogni anno. Potremmo stabilire un tetto, ad esempio, stabilendo che nessun governo, di destra o di sinistra, possa ridurre la spesa sanitaria al di sotto dell’8% del PIL. Questo creerebbe una sorta di garanzia di livello minimo, consentendo al contempo scelte strategiche che ottimizzino l’uso delle risorse.