Immunologa, biologa cellulare e oncologa molecolare: dall’attività di ricerca in laboratorio, per mettere un freno alle cellule tumorali, alla direzione scientifica di AIRC.
Anna Mondino è entusiasta di contribuire a perseguire la mission di AIRC: finanziare la ricerca migliore con l’ambizione che la ricerca diventi cura.
Una storia professionale, la sua, strettamente legata ad AIRC.
«AIRC – dice – ha creduto in me da giovane laureata, assegnandomi una borsa di studio, mi ha poi dato con un finanziamento dedicato l’importante opportunità di rientrare in Italia dagli Stati Uniti e avviare un laboratorio, per poi supportare la mia attività di ricerca con numerosi grant».
Direttrice, ripercorriamo la sua carriera.
«Mi sono laureata in biologia all’Università di Torino, lavorando con il professor Comoglio e il professor Gaudino, e subito dopo ho fatto domanda per una borsa AIRC. Ricordo ancora il giorno in cui sono partita per Milano: all’epoca le interviste si svolgevano in presenza. Sono partita con un plico di fotocopie e, durante il viaggio in treno, ho letto un articolo del professor Della Porta, sul quale poi lo stesso Della Porta mi ha interrogata. Un colpo di fortuna incredibile! Ho vinto la borsa di studio per giovani laureati e, contestualmente, ho iniziato il dottorato di ricerca a Torino. Un terzo del dottorato l’ho svolto alla New York University. Poi mi sono trasferita in Minnesota per occuparmi di immunologia, una passione nata durante il corso di laurea, grazie al professor Guido Forni. Sono rimasta in Minnesota per cinque anni e lì ho imparato a fare l’immunologa».
Qui entra di nuovo in gioco AIRC: nel 1998 vince infatti un New Unit Start Up Grant che le permette di tornare in Italia e avviare il suo laboratorio di ricerca al San Raffaele di Milano.
«Esatto, grazie al bando AIRC, che consente a ricercatori e ricercatrice italiane all’estero di tornare in Italia e avviare un proprio laboratorio, sono tornata in Italia per lavorare al mio progetto, con l’obiettivo di trasformare i linfociti T, cellule del sistema immunitario, in farmaci viventi contro i tumori solidi. È così che è iniziata la mia carriera nell’ambito dell’immunologia dei tumori».
Il suo obiettivo era potenziare il sistema immunitario, affinarne la capacità di riconoscere le cellule tumorali per bloccare lo sviluppo del tumore?
«Esatto. Il nostro sistema immunitario ci difende da agenti patogeni esterni, come batteri e virus. Il tumore invece è un agente patogeno particolare: perché si sviluppa a partire dalle nostre stesse cellule, che il sistema immunitario normalmente non è in grado di riconoscere come pericolose e attaccare. Se lo facesse, rischieremmo di morire tutti di malattie autoimmuni.
Lo scopo della mia ricerca era insegnare ai linfociti T a riconoscere meglio e agire contro queste cellule trasformate, senza intaccare quelle sane. In sostanza, abbiamo lavorato al fine di trasformare i linfociti T in “super T”».
Obiettivo raggiunto?
«Sì, studiando la biologia alla base della risposta dei linfociti e delle cellule tumorali, e modificando geneticamente i linfociti T affinché potessero riconoscere meglio il tumore».
Direttrice, anche lo sport è una sua passione. Ebbene, la scienza è come lo sport: competizione, rispetto delle regole, ambizione di arrivare primi al traguardo. Parlando della ricerca oncologica, l’avversario da vincere sono le cellule impazzite del nostro corpo, le cellule tumorali. Quali traguardi ha raggiunto e dove può portarci la nuova frontiera dell’immunoterapia?
«È vero, sia nella scienza che nello sport lo spirito competitivo ti spinge a metterti in gioco ed è importante essere resilienti e tenaci: nulla viene per caso. Se vuoi eccellere, allenamento, capacità di affrontare le sconfitte e di cambiare strategia sono fondamentali. E lo sono anche in laboratorio. Per questo penso che chi si confronta con l’attività agonistica e in generale con attività che ti obbligano ad allenarti per raggiungere un risultato, come per esempio suonare uno strumento musicale, acquisisca competenze utili anche per fare ricerca. Perché la vita della ricercatrice è fatta di 99 sconfitte e una vittoria. E non si smette mai di imparare.
Per quanto riguarda la nuova frontiera dell’immunoterapia, io sono partita da un training in oncologia molecolare, studiando le basi del tumore, per poi studiare le risposte immunitarie. Così sono arrivata a voler usare e affinare una risorsa che abbiamo già a disposizione, la risposta del nostro sistema immunitario, per sconfiggere il tumore. E oggi l’immunoterapia in ambito oncologico è un’area di ricerca ambiziosa e promettente.
Sappiamo già che alcuni vaccini possono prevenire i tumori di origine virale, ma possono avere anche un’efficacia terapeutica sui pazienti che hanno già sviluppato il tumore. Sicuramente c’è ancora tanto lavoro da fare: per esempio dobbiamo individuare nuove istruzioni da dare ai linfociti T per renderli ancora più efficaci nel raggiungere e uccidere il tumore, e quali terapie di combinazione sviluppare. Sappiamo infatti che la chemioterapia e la radioterapia modulano la capacità del sistema immunitario di rispondere al tumore. Quindi, combinare tutte le opportunità che abbiamo a disposizione e su cui stiamo lavorando, nei prossimi anni, ci darà grandi soddisfazioni».
Tornando al suo legame con AIRC, con la Fondazione condivide anche la data di nascita.
«Sì, siamo entrambe nate nel 1965».
Nel 1965, non si poteva parlare di cancro e l’idea di fare ricerca in questo ambito era considerata da alcuni una sfida, se non una follia. Fortunatamente però, come si legge sul sito della Fondazione, i soci fondatori, tra cui Umberto Veronesi e Giuseppe Della Porta, hanno avuto il coraggio di provarci davvero. E così da oltre 50 anni AIRC sostiene la ricerca oncologica con l’obiettivo di portare, nel minor tempo possibile, i risultati dai laboratori ai pazienti. Cosa è cambiato da allora?
«Sono cambiate tantissime cose, a partire dalla conoscenza della malattia. Grazie all’attività di ricerca sui meccanismi biologici e genetici, oggi sappiamo che non si tratta di una singola malattia, ma di tantissime malattie. Ogni paziente è unico. Fortunatamente, esistono trattamenti efficaci per un gran numero di persone, ma ci sono anche terapie su misura, personalizzate.
Abbiamo capito che, oltre a studiare la malattia, è fondamentale conoscerne la natura molecolare. Perché conoscendo il pedigree genetico e le caratteristiche del tumore, si può identificare la terapia migliore per ciascun paziente.
Sono cambiati gli ospedali di riferimento: ora esistono protocolli ben definiti e studi clinici sperimentali.
È cambiata l’attenzione della classe medica ed è migliorata la comunicazione tra medico e paziente, così come quella tra ricercatore e paziente, e in generale con i cittadini.
È aumentato anche il coinvolgimento della cittadinanza: i tumori riguardano tutti noi e utilizzando una comunicazione adeguata e le parole giuste si riesce a sensibilizzare la popolazione sulle malattie oncologiche e sull’importanza della prevenzione.
In alcuni casi si parla ancora di mali incurabili, perché alcuni tumori non sono attualmente curabili. Tuttavia, molte patologie oncologiche possono oggi essere assimilate a malattie croniche e ci sono pazienti che convivono con la malattia per molti anni, mantenendo una qualità di vita relativamente buona».
Quando parliamo di AIRC parliamo di una comunità di migliaia di ricercatrici e ricercatori. Ci illustra l’impegno della Fondazione, e quindi l’obiettivo del suo mandato, a sostegno della ricerca?
«AIRC è una comunità che respira insieme: donatori, volontari, ricercatori e ricercatrici, dipendenti, pazienti e le persone a loro vicine, siamo una famiglia. Il nostro scopo è finanziare la ricerca migliore e fare divulgazione sulle malattie oncologiche, per condividere risultati e sensibilizzare sui temi della prevenzione. Sosteniamo la ricerca attraverso diversi tipi di finanziamenti: dalle borse di studio per giovani laureati ai progetti di ricerca di giovani ricercatori che propongono nuove idee progettuali, fino ai progetti più complessi di ricercatori senior, quindi linee progettuali già avanzate.
La modalità di selezione e di erogazione dei fondi è sempre la stessa: chi ha un’idea, deve convincere il comitato di revisori che si tratta di una sfida valida e promettente. La domanda di finanziamento viene valutata in modo anonimo e se l’idea è buona, se il curriculum di chi la propone è affidabile e se l’istituto che ospiterà il lavoro di ricerca offre il giusto supporto, il progetto viene finanziato. È una procedura molto complessa, ma che ci garantisce di selezionare l’eccellenza.
Oltre a ricercatori italiani, circa 600 revisori stranieri partecipano alla valutazione dei progetti.
L’obiettivo del mio mandato è dunque continuare in questa direzione, facendo in modo che i risultati della ricerca non si fermino nei laboratori, ma transitino attraverso la validazione e l’implementazione clinica, per portare nuove terapie a disposizione dei pazienti.
Sono convinta che in Italia ci sia l’ecosistema giusto affinché questo avvenga: abbiamo centri di ricerca e università eccellenti, negli ultimi anni è cresciuta la cultura del rischio imprenditoriale in ambito biotecnologico, e sempre più investitori stranieri guardano alla ricerca italiana. Dobbiamo riuscire a mettere a sistema queste diverse componenti per far sì che la ricerca diventi cura, la migliore cura possibile».
Per raggiungere questo traguardo, gioca un ruolo chiave anche la politica. Mi riferisco ai finanziamenti alla ricerca, ma anche al fatto che la scienza dovrebbe essere considerata una leva su cui fondare le scelte strategiche del nostro Paese. Invece in Italia abbiamo assistito a scelte bizzarre che hanno ostacolato la ricerca e la messa a terra dell’innovazione.
«Sicuramente il sistema Paese potrebbe aiutarci di più. I finanziamenti destinati alla ricerca sono inferiori rispetto ad altri Paesi e sarebbe bello avere un portavoce con un forte impegno nei confronti della ricerca, perché abbiamo capacità progettuali notevoli. AIRC finanzia la stragrande maggioranza della ricerca oncologica in Italia: se potessimo contare su un supporto più strutturato da parte dello Stato e delle Regioni, la ricerca potrebbe correre più velocemente. Il primo a riconoscere questo è il Presidente Mattarella, che una volta all’anno ospita i ricercatori e le ricercatrici AIRC e celebra i successi della Fondazione.
A proposito del rapporto scienza e politica, il metodo scientifico è esportabile alla vita di tutti i giorni, quindi anche alla politica. Si parte da un’idea, ci si informa adeguatamente, da fonti attendibili, ci si confronta, si mettono in atto strategie al fine di verificare l’ipotesi per poi adottare comportamenti riproducibili. Ritengo che il metodo scientifico vada insegnato nelle scuole, a partire dalla prima elementare, e che applicarlo anche alle decisioni istituzionali sarebbe molto utile. Quindi concordo: ascoltare di più chi si occupa di ricerca potrebbe aiutare anche lo sviluppo del Paese».