I Livelli essenziali di assistenza (LEA) sono il fulcro del Servizio sanitario nazionale italiano: stabiliscono le prestazioni e i servizi cui cittadini e cittadine hanno diritto. La loro applicazione, però, è stata segnata da ritardi negli aggiornamenti e disuguaglianze nell’applicazione tra le Regioni.
Per analizzare le criticità attuali e le possibili soluzioni, al fine di garantire un’assistenza sanitaria più equa e tempestiva per tutti, abbiamo intervistato Antonio Gaudioso, esperto di politiche sanitarie che, dal 2020 al 2023, è stato componente della Commissione LEA.
Gaudioso, quando e perché sono stati istituiti i LEA?
«I livelli essenziali di assistenza sono stati istituiti, e soprattutto istituzionalizzati, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, all’inizio degli anni 2000. L’idea era di bilanciare il ruolo molto forte delle Regioni, in ambito sanitario, con la definizione di livelli essenziali di assistenza che garantissero che una serie di prestazioni fossero erogate uniformemente su tutto il territorio nazionale. All’epoca fu lungamente discusso se garantire i livelli essenziali o i livelli minimi di assistenza. E la differenza non è semantica, ma sostanziale. Perché l’idea di livelli minimi è legata a parametri di carattere economico, mentre quella di livelli essenziali è legata a parametri che prescindendo, almeno parzialmente, dalla considerazione di carattere economico si adattano periodicamente ai bisogni della comunità, evolvendosi così come si evolvono i bisogni di salute della comunità».
Affinché i livelli di assistenza sanitaria possano essere aggiornati in modo continuo, con la Legge di stabilità 2016 è stata istituita la Commissione nazionale per l’aggiornamento dei LEA. Quali sono i suoi compiti?
«La Commissione LEA è formata da rappresentanti delle Regioni, del mondo scientifico, delle agenzie vigilate dal ministero (AIFA, Istituto Superiore di Sanità, Agenas) e dai direttori generali competenti del ministero della Salute. E ha il compito di aggiornare i livelli essenziali di assistenza integrando le prestazioni, aggiungendone di nuove e togliendone altre che nel corso degli anni sono diventate obsolete o che, sulla base dell’evidenza scientifica, non sono più utili all’interno del Servizio sanitario nazionale».
Nel 2017 un decreto ha sostituito il DPCM del 2001, con cui i LEA erano stati definiti per la prima volta. Perché sono serviti tanti anni?
«Non per un problema tecnico. Il problema è politico ed economico. La Commissione LEA si occupa di verificare e aggiornare le prestazioni. Tutte le volte che vengono integrati i livelli essenziali di assistenza, sia in termini di definizione che di modifica, il decreto di aggiornamento può essere di due tipi.
Uno è il cosiddetto decreto iso-risorse. Per intenderci, se si introduce una prestazione che vale 5 e se ne toglie un’altra che vale 5, la procedura è sostanzialmente semplificata. Quindi, il ministero della Salute, la Presidenza del Consiglio e il ministero dell’Economia e Finanza trasmettono il decreto di aggiornamento alla Conferenza delle Regioni che, sostanzialmente, ne prende atto. Fermo restando che la procedura di verifica che questo sia effettivamente iso-risorse è comunque lunga: richiede una verifica tecnica, una consultazione anche da parte delle Regioni, ecc.
Quando però l’aggiornamento comporta degli oneri economici, cosa che accade nella grande maggioranza dei casi, e quindi ci sono risorse aggiuntive che vengono messe a disposizione per coprire le nuove prestazioni, il decreto di aggiornamento deve andare in Conferenza Stato-Regioni per l’intesa. Questo sostanzialmente vuol dire che tutte le Regioni e le Province autonome devono essere d’accordo. Tutte hanno infatti potere di veto e possono non essere d’accordo sulle prestazioni introdotte, sull’entità della copertura che viene messa a disposizione o, magari, anche per motivi di carattere politico.
E chi rimane col cerino in mano sono i cittadini, perché il paradosso è che, per le norme sul Patto di stabilità e sul controllo finanziario a cui le Regioni sono sottoposte, quelle che non sono in Piano di rientro possono mettere a disposizione dei propri cittadini i cosiddetti extra LEA, quindi prestazioni aggiuntive, alcune delle quali già valutate positivamente dalla Commissione LEA. Ma le Regioni che sono in piano di rientro, per legge, non possono innovare, non possono aggiungere niente. Questo paradosso, in attesa che i livelli essenziali di assistenza siano aggiornati, rischia di portare, e di fatto ha portato in tantissimi casi, a un ampliamento delle disuguaglianze anziché a una loro riduzione. Perché chi ha i soldi può erogare prestazioni innovative ai propri cittadini. Chi ha i soldi ma non li può spendere perché è sottoposto a vincolo di controllo per il Piano di rientro non può. Con la conseguente mobilità da una regione all’altra. E i cittadini ne pagano le spese».
In effetti, il ritardo nell’implementazione dei LEA 2017 ha determinato proprio questo: forti disomogeneità regionali, con l’applicazione a macchia di leopardo. Alcune Regioni hanno implementato alcune prestazioni e altre no, creando disparità nell’accesso alle cure…
«Basti pensare alla procreazione medicalmente assistita. È stata inserita nel DPCM LEA del 2017, ma fino a gennaio del 2025 non è stata disponibile su tutto il territorio nazionale, perché quel decreto è stato bloccato per molti anni, dato che non si riusciva a trovare l’intesa sulla definizione dell’importo delle tariffe delle nuove prestazioni e sulle coperture».
Cosa è successo?
«Nel 2017 si è trovato un accordo tra lo Stato e le Regioni per valorizzare le nuove prestazioni per circa 800 milioni di euro, di cui poco più di 400 milioni avevano a che fare con le prestazioni ospedaliere, che entravano subito in vigore perché adeguavano prestazioni che erano già nel tariffario. Le altre, per poco meno di 400 milioni di euro, erano prestazioni ambulatoriali, ed essendo nuove, come per esempio la PMA e alcuni tipi di screening neonatali, dovevano essere tariffate. Ma a fronte di varie proposte del Ministero non si è trovato l’accordo e tutto è rimasto nel cassetto, con un effetto doppiamente paradossale.
Da un lato, i cittadini non potevano usufruire di servizi e prestazioni in linea con le decisioni prese nel 2017. Ma dall’altro, i soldi per quelle prestazioni – in attesa che venissero codificate – sono stati dati alle Regioni e sono stati spesi per altro. E questo solleva un ulteriore problema, quello della trasparenza nell’allocazione della spesa.
Tutto questo mi porta allora a fare una considerazione: la modalità di aggiornamento, che in parte è frutto di una condivisione di poteri ampissima tra Stato e Regioni, è un processo complicato e anche se sei veloce e brillante, cosa che in questi anni non si è verificato, l’iter è farraginoso».
Quindi non è solo la copertura economica a rallentare il percorso di aggiornamento dei LEA, ma lo stesso impianto normativo?
«Sì, perché coerentemente con la riforma del Titolo V, non si può prescindere dal passaggio alla Conferenza Stato-Regioni, dove tutti i soggetti hanno pari poteri, a meno che il Governo non faccia un atto d’imperio, sostanzialmente come fece all’epoca il presidente Draghi con la riforma della sanità territoriale. Non ci fu l’intesa da parte di tutte le Regioni, una era contraria, allora Draghi portò la riforma in Consiglio dei ministri affinché il cosiddetto DM 77 venisse approvato ed entrasse in vigore. Ma immaginate dover fare una cosa del genere tutte le volte».
Che ruolo hanno o potrebbero avere le associazioni? Penso per esempio a Cittadinanzattiva, di cui lei è stato segretario generale fino al 2021, e che è stata in prima linea nel monitorare l’applicazione dei LEA e promuovere l’equità nel sistema sanitario…
«Il ruolo delle associazioni è fondamentale in termini di pressione, lo è stato anche per portare a compimento l’effettivo aggiornamento dei LEA 2017. Ma sono fondamentali anche per tenere le luci accese sul monitoraggio dei livelli essenziali d’assistenza e per fornire dati e informazioni utili di real world che aiutino la Commissione tecnica a valutare le prestazioni, in modo che siano effettivamente coerenti con i bisogni della comunità, dei pazienti, e al passo con le innovazioni medico-scientifiche. Del resto è previsto per legge, con la norma che ha istituito la Commissione nazionale per l’aggiornamento dei Lea, che annualmente ci sia un aggiornamento».
Però non è mai successo…
«Infatti. Perché nell’ambito dei potere dello Stato, il ruolo delle Regioni sui temi della salute è paritario rispetto a quello del Governo centrale, e una norma non può prevalere rispetto alle indicazioni di carattere costituzionale. E così ci ritroviamo tutti a sperare che prima o poi le cose accadano, ma per un malato cronico o per uno scienziato che aspetta di poter mettere a disposizione dei pazienti delle prestazioni nuove, questa attesa è deleteria».
I cittadini possono essere una parte attiva nel processo di definizione dell’aggiornamento dei LEA, proprio per far sì che le prestazioni rispondano ai bisogni della popolazione?
«All’interno del portale del Ministero della Salute, è previsto che tutti possano sottomettere delle richieste di aggiornamento dei LEA. Senza alcun limite o parametro per circoscrivere l’ambito delle richieste. E così, magari, alcune non sono neppure di competenza dell’aggiornamento dei LEA, ma hanno a che fare con altro.
Su questo sarebbe opportuna, allora, una modifica normativa, che definisca in modo puntuale i soggetti eleggibili a fare delle proposte (associazioni, comunità scientifica, imprese, ecc.). E bisognerebbe fornire loro un vademecum, per chiarire di cosa hanno bisogno la Commissione e il Ministero per poter valutare rapidamente la proposta».
Cioè?
«Se domani mattina Antonio si sveglia e manda un’email chiedendo di inserire una prestazione di cui è venuto a conoscenza, che magari può aiutare suo figlio o sua figlia, la Commissione deve prendere in carico la richiesta e valutarla, avviando un iter tecnico che richiede tempo, per verificare di cosa si tratta, se ci sono evidenze scientifiche, eccetera.
Bisognerebbe invece chiarire che qualsiasi proposta è benvenuta purché, per agevolarne l’iter, sia accompagnata dal parere della comunità scientifica, evidenze che aiutino a dimostrarne il valore, il rapporto costo-beneficio».
Parlando di prospettive future, la digitalizzazione e l’utilizzo dei dati sanitari possono contribuire a rendere il processo più efficiente?
«No, perché purtroppo è un processo complicato e farraginoso che deve passare attraverso strumenti pesantemente analogici. Detto questo, la digitalizzazione può aiutare molto nella raccolta di dati e di informazioni che facilitano il processo di analisi e verifica tecnica che compete alla Commissione LEA, quello step, dunque, che porta all’approvazione o alla negazione di alcune richieste di aggiornamento.
Poi, però, completata questa parte dell’iter, che possiamo accelerare grazie alla digitalizzazione, il processo si blocca: come in un Gran Premio con la safety car, tutti devono rallentare. Di fatto, quando si arriva in Conferenza Stato-Regioni non si sa quanto tempo ci vorrà affinché l’iter si concluda: due mesi, due anni, o addirittura sette, come nel caso dell’ultimo “giro”».
Adesso finalmente, dopo otto anni, si sta procedendo all’aggiornamento organico dei LEA. Questa volta possiamo aspettarci un iter più veloce?
«Credo di sì, l’auspicio è quello. Si tenga presente che uno degli elementi che ha rallentato l’adozione degli aggiornamenti previsti nel DPCM LEA 2017, che sostituiva il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 2001, è stato il numero di prestazioni: parliamo di molte centinaia di prestazioni. Cosa che non si verificherebbe se si facesse un aggiornamento annuale e si dovrebbe trovare un accordo solo su trenta o quaranta nuove prestazioni.
Sul nuovo aggiornamento sono ottimista, sia per il numero di nuove prestazioni, sia perché il direttore generale della programmazione del ministero della Salute, il professor Americo Cicchetti, e il direttore del Dipartimento, il professor Francesco Saverio Mennini, sanno quanto sia importante arrivare rapidamente alla chiusura dell’iter. Quindi credo che almeno sul fronte ministeriale siamo prossimi al confronto in Conferenza. E dato che è un decreto finanziato, ci sono cioè soldi in più per queste prestazioni, speriamo che si proceda velocemente. Sarebbe un bel segnale nei confronti dei cittadini e dei pazienti che aspettano da anni di poter accedere a terapie, esami diagnostici innovativi, ecc.».
Che cosa fare, secondo lei, per garantire un’assistenza sanitaria più equa e tempestiva per tutti a livello di territorio nazionale?
«Innanzitutto, semplificare l’iter istituzionale e anche costituzionale: nessuno vuole mettere in discussione l’autonomia regionale, ma l’inefficienza amministrativa e istituzionale crea disuguaglianza, e non ce lo possiamo permettere, non è il volere del nostro costituente.
Secondo, un costante monitoraggio. Annualmente, cioè, dovrebbe essere realizzato, a cura del ministero della Salute, un rapporto sull’aggiornamento e sull’esigibilità dei LEA, perché non devono essere solo aggiornati ma devono essere esigibili per tutti. Quindi bisogna verificare che le cose funzionino nella realtà, anche in questo caso per evitare disuguaglianze e per rafforzare la fiducia.
Terzo, l’accountability: più il percorso è chiaro e trasparente, più c’è la possibilità di garantire che le cose funzionino e individuare dove c’è un eventuale intoppo. L’accountability è un elemento essenziale del processo democratico. Perché col mio voto ho la possibilità poi di premiare o sanzionare chi ha fatto bene e chi no.
E infine, altro aspetto molto rilevante è la partecipazione. Governare sistemi così complessi è molto complicato. Per motivi oggettivi: tante istituzioni coinvolte, spesso pochi soldi, l’innovazione scientifica che, fortunatamente, corre veloce. E la complessità si governa usando meglio le informazioni e creando percorsi partecipativi che responsabilizzino i vari soggetti della filiera: le associazioni, che sono i destinatari dell’azione pubblica, la comunità scientifica, il mondo dell’impresa, codificandone il coinvolgimento nelle varie fasi di valutazione.
Tutto questo si può fare: non è un libro dei sogni. Si tratta di assumersi la responsabilità, se si vuole governare un sistema sanitario che ha grandi complessità, ma anche uno straordinario impatto sulla salute di tutta la popolazione».
Foto: Informazione senza filtro