“Lo scopo lo esprime chiaramente il nome della Fondazione: valorizzare l’innovazione e promuovere il trasferimento tecnologico. In particolare dei cinque IRCCS pubblici della Lombardia: il Policlinico di Milano, l’Istituto Nazionale dei Tumori, l’Istituto Neurologico Carlo Besta, il Policlinico San Matteo di Pavia e il San Gerardo di Monza. Grandi organizzazioni ospedaliere che portano avanti un’ottima attività di ricerca coinvolgendo circa 2600 ricercatori e ricercatrici”.
Marco Baccanti è il Direttore Generale della Fondazione Innovazione e Trasferimento Tecnologico (FITT) e a Innlifes racconta le sfide da affrontare per trasformare i risultati della ricerca scientifica in nuove opportunità di cura a beneficio dei pazienti e in nuove opportunità di business a beneficio dello sviluppo economico. “Perché l’innovazione in campo biomedico può migliorare la qualità della vita dei cittadini migliorando contestualmente la competitività del Paese”.
“L’obiettivo – puntualizza il manager di lungo corso in organizzazioni di ricerca, parchi scientifici e imprese life science – è colmare il gap tra la qualità della ricerca di questi istituti e l’impatto economico e sociale della stessa. Alla grande qualità della produzione scientifica non corrisponde infatti il numero che ci si aspetterebbe di brevetti, startup, accordi di licenza, ecc”.
A frenare l’innovazione e la sua valorizzazione, anche la burocrazia e le normative a cui le istituzioni pubbliche sono soggette. “Per questo è stata istituita FITT, organizzazione esterna di diritto privato che consente una maggiore agilità nella gestione dei processi necessari per valorizzare il lavoro di ricerca e che annovera tra i suoi membri, oltre agli IRCCS, anche Arexpo, società compartecipata da Ministero dell’Economia e della Finanza, Regione Lombardia e Comune di Milano, che coordina lo sviluppo del distretto dell’innovazione MIND nato sull’area Expo”.
Fondata a dicembre 2022, la FITT è ora entrata nella fase di operatività. Un lavoro sinergico con gli uffici di trasferimento tecnologico degli IRCCS membri. “A loro compete la gestione delle relazioni con lo staff di ricerca, sarà invece la FITT a gestire il processo dallo scouting all’exploitation: quindi la verifica della brevettabilità (l’IRCCS rimane proprietario della proprietà intellettuale), l’individuazione della strategia di valorizzazione più consona (contratti di licenza o creazione di una startup), lo sviluppo del business plan, la ricerca di investitori, di potenziali licenziatari, poi tutte le successive negoziazioni…” spiega Baccanti.
Il trasferimento tecnologico nel settore life science può fare la differenza non solo per la salute delle persone ma, come diceva, anche per l’economia del Paese, perché crea valore, economico e sociale, attraverso brevetti e investimenti in società innovative nate dalla ricerca scientifica. Ma come si costruisce questa catena di valore?
È noto che quelle aree geografiche caratterizzate dal successo nei processi di trasferimento tecnologico sono luoghi di eccellenza in cui la valorizzazione delle attività di ricerca è riuscita ad alimentare uno sviluppo del tessuto economico locale. Per riuscirci serve una grande massa critica in termini di capacità di ricerca e servono professionalità complementari: esperti di proprietà intellettuale, di trasferimento tecnologico, una comunità di investitori di varia natura, specializzati nel seed, nel venture capital, in equity, società specializzate nelle operazioni IPO, esperti legali, ecc.
La capacità di gestire tutti questi processi comporta uno sviluppo economico del territorio proprio nella direzione più desiderabile per Paesi come il nostro che devono necessariamente far leva su attività ad alta intensità di conoscenza, non disponendo di petrolio e altre risorse naturali da vendere. Bisogna dunque saper creare un ecosistema forte: da questo dipende la futura competitività dell’Italia.
Quali sono le aree geografiche di eccellenza a cui ispirarsi?
Quelle che eccellono nel campo delle scienze della vita sono Boston, San Francisco, Singapore e in Europa l’area Oxford-Cambridge, Ile di France e Stoccolma con il Karolinska Institutet.
La presidente del CNR Maria Chiara Carrozza ha sottolineato l’importanza di colmare il gap fra ricerca accademica e industriale, grazie a strumenti più veloci e flessibili, in occasione della presentazione della Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia. Relazione che evidenzia un’Italia prevalentemente specializzata in industrie tradizionali e che non ha ancora sviluppato adeguate competenze in quei settori ad alto contenuto tecnologico che oggi prospettano maggiori opportunità economiche. D’altro canto però, come ha dichiarato Maria Grazia Roncarolo a Innlifes, il brain power italiano è unico: dobbiamo solo metterlo a frutto. Come?
Sono d’accordo. La quantità di brevetti non è adeguata alla capacità di conoscenza e produzione scientifica che contraddistingue il nostro Paese. Ma ancor di più, la capacità di valorizzazione dei brevetti è al di sotto delle aspettative: il brevetto, infatti, dovrebbe essere considerato uno strumento e non un fine. Non serve infatti brevettare se poi non si ha modo di valorizzare il brevetto: o direttamente, passandone la licenza a una startup che sia in grado di portare avanti la ricerca e sviluppare il prodotto da portare sul mercato, o licenziandolo a terzi che abbiano competenze e capitali per procedere allo sviluppo. Se questo non avviene, non completiamo quel processo di creazione di valore di cui parlavamo prima e che porta benefici ai pazienti e allo sviluppo economico.
Bisogna dunque costruire un ecosistema dell’innovazione e per farlo servono competenze. Quale percorso formativo consiglia per operare con successo nel campo del trasferimento tecnologico nel settore life science?
È necessario abbinare alte competenze per la ricerca scientifica con competenze in discipline economiche, magari un PhD prima e un MBA poi.
Delle tante persone con cui ho collaborato e ho avuto nei miei team, anche all’estero, quelle più preziose sono sempre state quelle che nel percorso formativo sono riuscite a combinare le due specializzazioni. Perché scrivere un articolo scientifico e un business plan richiedono competenze diverse. E se chi fa ricerca, in laboratorio non impara a ragionare in termini economici, chi si è specializzato solo sui processi di business ha difficoltà a comprendere gli aspetti più intrinseci della ricerca.
A proposito della sua attività all’estero, negli ultimi anni è stato il Chief Executive di Health Industries, l’authority per lo sviluppo economico nel settore biomedicale del governo del Sud Australia. Parlando di trasferimento tecnologico, quali le maggiori differenze con l’Italia?
Sono stato 7 anni in Australia e la differenza più evidente è la complessità. Nel mondo anglosassone, in particolare in Australia, le regole sono poche, chiare, ben scritte e rispettate da tutti. L’Italia, al contrario, è caratterizzata da una quantità enorme di norme e da una complessità burocratica che dilatano inevitabilmente i tempi del processo di trasferimento tecnologico. In Australia è possibile definire in breve tempo ognuna delle varie tipologie di contratti che regolano l’attività di Technology Transfer, in Italia invece i livelli decisionali da coinvolgere son tanti, soprattutto in ambiente pubblico, e i tempi molto lunghi. E capite bene quanto sia importante il fattore tempo per un’azienda che deve riuscire a procedere con le fasi di sviluppo nell’arco di vita di un brevetto che, una volta scaduto, non consentirà più una sufficiente remunerazione dell’innovazione. Quindi, per esempio, da un lato c’è la pressione alla velocità da parte dell’acquirente di una licenza e dall’altra c’è un ente di ricerca che non riesce ad assecondare questa esigenza per aspetti burocratici. E questo è uno dei motivi principali che spiega la differenza nei risultati tra Italia e altri paesi a parità di capacità di produzione scientifica. Anzi: per la qualità e la quantità delle pubblicazioni in ambito life science l’Italia è tra i primi al mondo. La complessità delle norme, dunque, è il collo di bottiglia da superare se vogliamo che il settore diventi un asset dello sviluppo del Paese.