Anche fallire va bene. Parola di Elena Cattaneo

Anche fallire va bene. Parola di Elena Cattaneo

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Susanna de Luca

Perché ne stiamo parlando
La prof.ssa e senatrice propone l’immagine del “ricercatore nel deserto” e il fallimento come indice di quanto alla frontiera veramente sia una ricerca.

Il fallimento è davvero una strada obbligata nel progresso scientifico?

«Ci si deve immaginare il ricercatore in un deserto. E quella del deserto della non conoscenza è un’immagine bellissima, apparentemente semplice, senza confini, barriere o cancelli». Lo teorizza Elena Cattaneo, Ordinario di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano e Direttrice del Laboratorio di Biologia delle Cellule Staminali e Farmacologia delle Malattie Neurodegenerative, partecipando all’incontro “Il senso di una ricerca fallita” organizzato durante il Convegno delle Associazioni in Rete di Fondazione Telethon a Rimini.

La prof.ssa Cattaneo sottolinea il coraggio, la determinazione e il risvolto positivo del fallimento: «Non ci sono strade tracciate nel deserto e quando non ci sono strade tracciate prendere una direzione sbagliata è normale. Non falliremmo se stessimo fermi immobili, ma nel deserto della non conoscenza scegliere una direzione o l’altra è un atto di coraggio: di prendersi la responsabilità di sapere che potremmo imboccare la direzione sbagliata».

La professoressa cita alcuni ricercatori italiani che hanno saputo avventurarsi con determinazione in quel deserto: «Tantissime volte succede che fai rotazioni su te stesso a 365 gradi e non vedi nessuno: Alessandro Aiuti e Luigi Naldini sono stati gli apripista, rappresentano la frontiera, sono in quel pezzo di deserto dove non c’è nessuno, pensate che coraggio hanno sviluppato e insegnato! Accettando anche il rischio del fallimento, percorrendo la strada per capire se è sbagliata».

«Per me – dice – il fallimento è solo una tappa. Niente più di quello. Una tappa necessaria perché se vogliamo capire la direzione giusta nel deserto dobbiamo anche escludere strade attraverso il fallimento. Ecco perché il fallimento aiuta, perché restringe il campo dell’ignoto, dell’incertezza. Io anzi misurerei il fallimento come indice di quanto alla frontiera veramente sei».

Mi pare la formazione sia per lei un tema molto caro. Come riuscire ad aiutare i giovani ricercatori a essere davvero innovativi, a pensare fuori dagli schemi, a essere rivoluzionari?

«Devi dar loro la libertà di farlo, questa è la prima cosa. Devi ovviamente metterci intorno gli strumenti, ma lasciare un po’ che siano loro a decidere; ovviamente aiutandoli, indirizzandoli, insomma stimolandoli a sviluppare le loro idee, questo è tutto. Perché poi quando uno comincia ad avere una domanda bruciante in corpo, parte per la luna. Perché è la domanda che guida tutto.

Per questi giovani è bello che siano lasciati liberi: ovvio che il campo di lavoro è quello, noi in laboratorio lavoriamo sulla malattia di Huntington, non potrai lavorare su altre malattie. Ma io dico sempre: questi sono i piani, se tu hai un piano migliore di questo, io sono pronta a buttarlo giù e sposo la tua idea».

Una ricerca nel deserto però, in qualche modo, insieme.

«Quel deserto è veramente aperto, c’è spazio per tutti. A patto che tu abbia un’idea da condividere, che tu l’abbia ben pensata, che tu sia pronto anche a modificarla, se ci sono delle parti non appropriate. Poi un altro dovere e obbligo che ciascuno di noi ha, incluso i giovani, è tirar fuori tutte le carte, o meglio, ogni risultato deve essere messo sul tavolo, messo sotto gli occhi di tutti».

Quanto è importante accettare le critiche?

«Devi essere pronto alla critica feroce. A non vivere il risultato come se fosse una parte di te, che ti viene strappato via se qualcuno te lo critica. Per formarsi bene non bisogna mai essere sulla difensiva, quindi bisogna anche abituare i giovani ad avere l’idea, a svilupparla, a fare gli esperimenti per vedere se quell’idea è giusta o sbagliata, ma poi quasi a estromettere l’idea da se stesso. C’è la tua determinazione, ma non ti devi offendere se qualcuno critica il tuo risultato».

Un altro tema a lei caro è quello del gender gap…

«Mi sono accorta che il divario di genere c’è eccome, è in ogni atomo di ossigeno che respiriamo, fa parte della nostra storia evolutiva, quindi non dobbiamo più chiederci se c’è, dobbiamo affermare che c’è, averne consapevolezza e sviluppare gli strumenti per contrastarlo. Alcuni strumenti devono essere legislativi, altri devono essere della donna per prima che non cede e che non si fa condizionare.

Dobbiamo combattere questa sindrome dell’impostore. E il divario di genere per capirlo lo devi studiare, non possiamo viverlo come una cosa glamour, personale. Non è qualcosa che puoi vedere a livello individuale, lo devi studiare a livello collettivo e la scienza ci permette di farlo grazie agli scienziati sociali».

La sindrome dell’impostore è spesso un freno per la carriera delle donne…

«C’è questo esperimento che a me piace tantissimo. Hanno bandito una posizione finta negli Stati Uniti e hanno indicato i dieci requisiti necessari per ambire alla posizione. Hanno aperto la posizione e hanno valutato i CV. Cosa hanno visto?  Nei CV maschili bastava che avessero sei dei dieci requisiti e applicavano. Le donne erano al 120% e se non rispondevano a tutti e dieci i requisiti non applicavano neanche.

Quindi c’è qualcosa, una discriminazione, che è dentro di noi. Ho letto questo libro bellissimo: Brave, not perfect, nel quale ti spiegano che da quando nasci la bambina ha il vestitino rosa, bellino, non si deve sporcare, non si deve arrampicare e deve essere perfetta, invece per il bambino c’è sempre la spinta ad essere coraggioso».

Fortunatamente il mondo del life science mostra segnali positivi in questo senso. In occasione dell’ESG Life Science Forum organizzato da Indicon SB Donne ai vertici: un’analisi, focus sul Life Science – INNLIFES si è evidenziato come ci siano molte più donne in posizioni apicali nell’Health rispetto ad altri settori.

«Non così tante, il numero di donne ai vertici rimane sempre bassissimo. Se guardi l’Università il 25% sono ordinarie donne».

Keypoints

  • La “domanda bruciante” in corpo al ricercatore è la spinta che lo porta a esplorare strade nuove nella ricerca
  • Fondamentale nella ricerca accettare le critiche e saper cambiare idea
  • Bisogna aver consapevolezza che il gender gap esiste e sviluppare gli strumenti per contrastarlo
  • La sindrome dell’impostore è uno dei principali freni alle carriere femminili

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