«Un farmaco è una sostanza chimica – naturale o di sintesi – capace di esercitare un effetto sull’organismo, in particolare un effetto benefico sui sintomi o sulle cause della malattia o, più spesso, su quelle condizioni che rappresentano un fattore di rischio per una malattia, con lo scopo finale di migliorare la qualità di vita, guarire o ritardare la mortalità».
Viva i farmaci, allora.
«Ma dovremmo avere un po’ più di cultura sui farmaci». A dirlo è Silvio Garattini, che nel nuovo libro – da oggi in libreria – spiega luci e ombre dei «Farmaci» (il Mulino).
Oncologo e farmacologo, Garattini è il fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, di cui è presidente. Alla ricerca e alla professione medica, che consiglia di intraprendere a chi ha a interesse per la salute degli altri, si è avvicinato per ragioni personali.
«Il fatto che mia mamma fosse ammalata ha avuto senza dubbio un peso nell’orientarmi a occuparmi di ricerca. Occuparsi di ricerca vuol dire occuparsi del bene degli altri, vuol dire fare il possibile perché gli altri stiano meglio».
E i farmaci hanno giocato e giocano un ruolo importante nel salvaguardare la nostra salute. Ma ne andrebbero usati «pochi e solo se necessari».
Invece, «nel 2022 in Italia abbiamo speso in farmacia 6,5 miliardi di euro circa per acquistare farmaci completamente a nostro carico, farmaci cioè non presenti nel Prontuario farmaceutico nazionale. Di questi, oltre la metà, 3,5 miliardi, per farmaci di automedicazione».
Professore, usiamo troppi farmaci, impropriamente?
«Certamente. Usiamo i farmaci impropriamente perché la pubblicità e le informazioni che riceviamo tendono a medicalizzare la nostra società. Tutta l’informazione deriva da chi vende, non c’è nel nostro Paese un’informazione adeguata e indipendente che aiuti le persone a scegliere. Tante volte il farmaco non è necessario, basterebbe cambiare le abitudini di vita».
Lei denuncia anche il fatto che siamo arrivati al commercio di farmaci come se fossero beni di consumo a causa della trasformazione della medicina da servizio a mercato.
«E come ripeto spesso, ogni mercato tende per sua stessa natura a crescere, ad autoalimentarsi. Il problema è che se noi guardiamo alla nostra durata di vita, siamo all’apice: perché abbiamo una durata di vita lunghissima. Ma quello che ci deve interessare di più è la durata di vita sana: in questo caso scendiamo molto in graduatoria, addirittura intorno al 15esimo posto. E questo dipende dal fatto che abbiamo concentrato tutta l’attenzione della medicina nelle cure, che sono importanti, dimenticandoci però che molte malattie sono evitabili. In Italia abbiamo quattro milioni e mezzo di diabetici di tipo 2. E il diabete di tipo 2 è una malattia assolutamente evitabile. Ogni anno muoiono 180mila persone di tumore. E anche il 40% dei tumori è evitabile.
È necessaria una grande rivoluzione culturale: dobbiamo spostare la nostra attenzione dalle cure alla prevenzione, perché avere meno malattie vuol dire andare meno dal dottore, prendere meno farmaci, avere meno ricoveri ospedalieri, a beneficio anche del Servizio sanitario nazionale, che non verrebbe sovraccaricato di lavoro evitabile».
A proposito di sostenibilità del Ssn, che cosa determina il valore di un farmaco?
«Il vero valore di un farmaco dovrebbe essere l’innovazione, cioè fare qualcosa che farmaci già disponibili non fanno. Ma questo non è quello che è richiesto dalla legislazione europea per l’approvazione dei farmaci. Un farmaco si approva sulla base di tre caratteristiche: qualità, efficacia e sicurezza. Che vanno bene, ma non ci dicono quale sia l’effetto del nuovo farmaco rispetto a quelli che già esistono. Non si fanno confronti e così abbiamo tanti farmaci per le stesse indicazioni. Questo giova al mercato. Questo è il risultato della pressione economica rispetto agli interessi degli ammalati».
Innovazione, invece, significa introduzione di nuove modalità per creare un cambiamento positivo nello stato di cose esistenti. E proprio in accordo con questo significato, lei scrive, il brevetto di un nuovo farmaco dovrebbe rappresentare qualcosa di meglio rispetto a quanto già disponibile. Ma non sempre è così, perché vengono brevettati anche farmaci «fotocopia».
«Per esempio, abbiamo 120 prodotti che agiscono sull’ipertensione, ma sono tutti veramente necessari? Hanno tutti la stessa attività? Non lo sappiamo, ma li dobbiamo tenere tutti, perché non facendo confronti è difficile dire quale sia il migliore. D’altra parte, l’Italia è un paese che fa poca ricerca e quindi non possiamo neanche rispondere a questi quesiti. E investe poco in ricerca.
Per farsi un’idea: se volessimo anche solo avvicinarci alla Francia, dovremmo spendere 22 miliardi in più all’anno. E così sostanzialmente continuiamo ad avere una rimborsabilità dei farmaci eccessiva, perché rimborsiamo tantissimi farmaci, tutti con la stessa indicazione. E se i farmaci sono tanti, evidentemente ci sarà tanta pressione per prescriverli. Come dicevo prima, tutti i mercati tendono ad aumentare, anche il mercato della medicina».
Però, se da un lato il mercato dei farmaci è affollato da «farmaci fotocopia», dall’altro è carente di farmaci per le malattie rare, i cosiddetti «farmaci orfani».
«E questo è contro la Costituzione, perché la nostra Costituzione dice che lo Stato protegge la salute di tutti. Ma non è vero, perché protegge la salute di quelli che hanno malattie comuni. Perché c’è un grande profitto nel mettere a punto nuovi farmaci che servono a molti. Mentre mettere a punto nuovi farmaci che servono a pochi è poco remunerativo.
E così, a fronte di circa 7000 malattie rare, oggi abbiamo a disposizione – nonostante gli incentivi dati alla ricerca sui farmaci che possono essere designati come orfani – un centinaio di famaci per i quali il Ssn spende quasi due miliardi di euro, perché il loro costo è particolarmente elevato».
Allora una strada da perseguire è il Modello Telethon?
«Per soddisfare realmente il bisogno di farmaci per la cura delle malattie rare sarebbe necessario cambiare l’intero sistema. Bisognerebbe non brevettare i farmaci sviluppati da parte di enti che non hanno scopo di lucro, perché il costo dei brevetti va a finire poi nel costo dei farmaci acquistati attraverso il Servizio sanitario nazionale.
In altre parole si potrebbe promuovere un’imprenditoria rigorosamente non profit. Dove non profit significa che il prezzo non sarà caricato dei costi dell’acquisto di un brevetto e dell’atteso profitto da parte dell’industria, ma rappresenterà solo i costi effettivi sostenuti per la sua realizzazione».
Lei nel libro spiega come si sviluppa un nuovo farmaco, sottolineando che la metodologia scientifica che ci permette di sapere se una sostanza fa bene o male, che ci permette cioè di verificare la sua efficacia e la sua sicurezza, è unica, non sostituibile, ma migliorabile. Che cosa dovrebbe essere migliorato?
«Per esempio il fatto che le donne sono sostanzialmente escluse dal processo che porta all’approvazione di un nuovo farmaco. Tutti gli studi preclinici a livello animale vengono condotti nella stragrande maggioranza dei casi su animali maschi e anche gli studi sui volontari vengono fatti su soggetti maschi. E così le donne subiscono i farmaci studiati negli uomini. Perché la stessa malattia non si presenta con la stessa frequenza, gli stessi sintomi e gli stessi esiti in maschi e femmine. Così come il metabolismo di un farmaco non è uguale nel maschio e nella femmina.
È diverso l’assorbimento, diversa è l’eliminazione e diversa è anche la trasformazione in altre sostanze chimiche. Quindi condanniamo le donne a usare farmaci non studiati per loro. Dovremmo avere due protocolli, invece trattiamo le donne come se fossero dei maschi e questo a lungo termine comporta maggiore tossicità. Si calcola che la tossicità dei farmaci sia del 40% superiore nelle donne rispetto ai maschi e questo è ingiusto».
Sempre a proposito di miglioramenti possibili, in Italia ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico sono ostacolati da un’inutile burocrazia. Questo vale anche per lo sviluppo di un farmaco?
«Certamente. Per esempio, si consideri che si comincia a studiare i farmaci negli animali. Ebbene, ogni volta che usiamo anche un solo topo dobbiamo riempire decine e decine di pagine di questionari, dobbiamo pagare una tassa anche se facciamo cose nell’interesse pubblico e dobbiamo passare attraverso quattro comitati. Alla fine ci vogliono sei mesi per avere l’approvazione. E questo rende difficile lavorare e rende difficile collaborare a livello europeo, perché altri Paesi hanno regole molto più semplici».
Parliamo di futuro. Quali saranno i farmaci che faranno più la differenza, soprattutto pensando a malattie che al momento non hanno cure?
«È difficile predire il futuro, dipenderà in buona parte da dove si concentrano oggi la ricerca più innovativa e i maggiori investimenti».
Nel libro cita le terapie cellulari, i farmaci oligonucleotidi antisenso… Terapie che in alcuni casi stiamo appena iniziando a usare.
«La tendenza è andare verso terapie che sono molto più costose. Secondo me bisogna stare attenti che il mercato non abbandoni le vie più semplici, che sono quelle delle sintesi chimiche, per intraprendere solo vie più complicate. Perché questi prodotti costeranno di più, penso per esempio agli anticorpi monoclonali».
Lo dice nell’ottica della sostenibilità del Servizio sanitario nazionale?
«Il Ssn deve essere sostenibile. Ogni anno noi aumentiamo la spesa per il farmaco di circa il 5% e questo non è assolutamente sostenibile nel tempo. Data la loro complessità, le terapie future potrebbero essere disponibili a costi così elevati da essere insostenibili da parte del Ssn. Senza dimenticare che nel tempo alcune di queste nuove terapie potrebbero anche manifestare notevoli effetti tossici attualmente non prevenibili.
Bisogna tener presente che noi siamo a conoscenza dei benefici dei farmaci. Gli studi sono fatti solo e prevalentemente per capire quali sono i benefici. Gli effetti tossici invece – e non esistono farmaci innocui – li scopriamo solo nel tempo, quando il farmaco entra nella terapia. Per sintetizzare potremmo dire così: i benefici si ricercano, gli effetti tossici si attendono. E ne sappiamo poco, perché in generale i rapporti sugli sugli effetti tossici vengono fatti su base spontanea. Non c’è un’agenzia che ne va alla ricerca».
In altre parole, lei dice che la farmacovigilanza non funziona?
«Non funziona assolutamente. Chi va a cercare gli effetti collaterali? Non c’è un organismo e non ci sono i soldi».
Quindi cosa fare per renderla migliore?
«Le associazioni dei pazienti e gli ordini dei medici dovrebbero chiedere a gran voce che si ponga più attenzione sugli effetti tossici, ma dato che l’industria in pratica finanzia tutti, è molto difficile che questo avvenga».
Non teme di alimentare la sfiducia nei confronti del mondo farmaceutico?
«Bisogna mantenere un equilibrio. L’industria farmaceutica fa un lavoro utile e lo ha fatto nel tempo, ma il controllo del mercato deve essere una delle attività fondamentali dello Stato. Attraverso il Ssn. Abbiamo l’Aifa: facciamola funzionare in modo adeguato».
Cosa non funziona dell’Agenzia italiana del farmaco?
«Si approva tutto. Qualsiasi farmaco venga approvato viene immesso. Invece bisogna valutare quali farmaci veramente servono. Se si cominciassero a chiedere i confronti tra i farmaci con le stesse indicazioni, l’industria sarebbe obbligata a farli».
Professore, in definitiva il messaggio chiave del suo libro è: meno farmaci e più prevenzione?
«I farmaci sono importanti, ma è più importante la prevenzione che permette di evitarli. La prevenzione è una forma di sano egoismo. Con vantaggi per tutti. Anche dell’efficienza del Servizio sanitario nazionale, che potrebbe occuparsi di quelle malattie che non sono evitabili.
Quando partecipo alle conferenze pubbliche dico: è giusto lamentarsi per le lunghe liste di attesa, ma sono lunghe perché non si fa prevenzione».