In attesa della definitiva approvazione della Legge di Bilancio per il 2024, INNLIFES inaugura un ciclo di interviste rivolte ai principali stakeholders del mondo della Salute, con l’obiettivo di approfondire le principali novità della manovra finanziaria allargando la conversazione sul futuro del SSN tra innovazione, nuove tecnologie e cambiamenti strutturali. La prima intervista è rivolta al Segretario Nazionale di FIMMG Silvestro Scotti, che ci ha parlato del ruolo del medico di medicina generale all’interno del processo di digitalizzazione della sanità, con uno sguardo ai progetti del PNRR e una risposta secca sulla possibilità di assunzione dei medici nel SSN.
Segretario Scotti, circa un mese fa auspicava, in un’intervista, che il governo trovasse nella Legge di Bilancio le risorse per rilanciare la Medicina generale. Siete soddisfatti del testo approvato? Quali le note positive e quali le aree critiche per il settore?
La nota positiva è che nella stesura definitiva della Legge di Bilancio, anche grazie alla nostra segnalazione, ma soprattutto per l’intervento del Ministro Schillaci, nell’ambito dei rinnovi contrattuali è stata considerata anche tutta la parte convenzionata, che nella prima stesura non era invece compresa. Dunque, una giusta correzione, visto che i medici di medicina generale sono sempre stati equiparati alle dinamiche del pubblico impiego, pur non essendo dei dipendenti pubblici. C’è poi tutta la partita che si deve giocare sul processo di finanziamento della riforma della domiciliarità prevista dal PNRR. Qui la criticità è rappresentata dal fatto che le Regioni ad oggi raggiungono gli obiettivi sulla base della domiciliarità prevista dal contratto di medicina generale, collegata all’assistenza domiciliare programmata e agli obiettivi provvisori del 2022, ma la riforma prevista dal PNRR prevede diversi gradi di intensità crescenti relativi all’assistenza domiciliare. Non si può dunque pensare di standardizzare i costi relativi alla domiciliarità riferendosi solo all’assistenza domiciliare di base, se la riforma chiede invece interventi di maggiore complessità per arrivare ad assistere a domicilio il 10% degli over 65 entro il 2026. Se vogliamo che il sistema evolva in questo senso, come giustamente previsto dal PNRR, è necessario valorizzare le attività di assistenza più complesse. Servirebbero, dunque, risorse aggiuntive per la formazione dei medici di medicina generale per questo tipo di attività, anche per rendere maggiormente attrattiva la professione del MMG, tema sul quale, però, non riscontriamo particolare interesse.
Quest’anno abbiamo assistito a un’inversione di tendenza per quanto riguarda l’iscrizione al Corso di Formazione specifica in Medicina generale, con un numero di domande superiore alle borse disponibili. A che cosa è dovuto, secondo lei, questo dato positivo?
C’è grande soddisfazione rispetto a questo, assistiamo a un’inversione di tendenza positiva. È evidente che sta funzionando il modello legislativo, seppur in deroga per la carenza di medici, che permette ai giovani di poter ricevere incarichi come medici (con un numero di assistiti limitato) anche mentre stanno frequentando il corso di formazione. In questo modo la borsa di studio per la medicina generale, che è di molto inferiore a quella di specialità, può essere affiancata da un altro stipendio che deriva dalle ore impiegate negli incarichi. Credo che, in questo modo, oggi un borsista di medicina generale possa arrivare a guadagnare più di uno specializzando potendo contare su due entrate. Proprio per questo motivo bisognerebbe pensare di rendere questa riforma strutturale, trasformando il corso di formazione in un vero e proprio corso di formazione-lavoro.
Cosa ne pensa, invece, di un’eventuale assunzione dei Medici di medicina generale come dipendenti pubblici nel SSN?
Io sono d’accordo con la posizione sindacale, che non vuole l’assunzione nel SSN in quanto si rischierebbe di mettere in discussione l’autonomia professionale del medico e, di conseguenza, anche la libera scelta del cittadino. Inoltre, a parte in Spagna, Portogallo e poche altre nazioni, nessun sistema di cura primaria nel mondo è di natura dipendente, ma sono tutti gestiti in libera professione. È chiaro che oggi questa libera scelta è messa in discussione dalla carenza dei medici, che si ritrovano ad essere pieni di assistiti e dunque non possono accoglierne altri. Inoltre, consideriamo che, nel caso dell’assunzione, i medici sarebbero spostati da un posto all’altro privilegiando la logica del management sanitario, e non quella degli obiettivi di salute. Spesso sappiamo che l’amministrazione della sanità è gestita da chi il territorio lo conosce poco: togliere anche la possibilità di scelta del medico di base significa togliere anche l’ultima figura di fiducia rimasta nel SSN ai cittadini.
Come incide la mancanza di medici di medicina generale sulla possibilità del sistema sanitario di innovarsi e aprirsi alla digitalizzazione e alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie?
Diciamo che è la precondizione. L’obiettivo della “casa come primo luogo di cura” grazie alla digitalizzazione della sanità funziona se vicino alla casa c’è un medico di medicina generale. Siamo consapevoli, e i sondaggi lo dimostrano, che i cittadini sono favorevoli ad esempio alla telemedicina, ma non rinuncerebbero alla figura del medico di base, per motivi di fiducia. È evidente che siamo nella fase iniziale, non si può pensare di introdurre in modo sistemico nuove tecnologie nel sistema in soli due anni: è un processo che richiede tempo, sia per quanto riguarda la formazione del personale sanitario, sia per l’alfabetizzazione dei pazienti, che devono imparare un nuovo linguaggio. Il medico di famiglia svolge in questo processo un ruolo cruciale: infatti, la digitalizzazione può essere accelerata se viene mediata da una figura di tipo fiduciario come il medico di base. Ovviamente il numero dei medici incide in maniera decisiva: noi da anni parliamo di medici per numero di assistiti, ma questo ragionamento non funziona. Serve iniziare a pensare alla distribuzione dei medici per chilometro quadrato, soprattutto considerando che nel nostro Paese più di 10 milioni di persone vivono in Comuni che non superano i 5000 abitanti. Soprattutto, quando parliamo di prevenzione primaria, la figura del medico di base è fondamentale e non si può pensare di sostituirla unicamente con la telemedicina per raggiungere i piccoli comuni e le aree interne, altrimenti non si spiegherebbe perché fino ad ora le campagne di promozione vaccinale e altre categorie di prevenzione primaria non abbiano funzionato granché.
Gli interventi del PNRR puntano proprio a rimodernare il SSN e ad intensificare i presidi di medicina territoriale. Per raggiungere questi obiettivi, però, servono più medici. Sono sufficienti, secondo lei, gli investimenti in personale previsti dal Piano per i prossimi anni o è necessario in parallelo un impegno maggiore del governo?
Il Piano praticamente non prevede investimenti nel personale, ma solo in strutture e tecnologie. C’è chi pensa di risolvere la mancanza di medici con la tecnologia, ma sappiamo che i cittadini vogliono una tecnologia che sia mediata dal medico che si sono scelti. Credo che in questo il PNRR sia fallace, in quanto crea le strutture ma non genera le condizioni per rendere queste strutture attrattive ai professionisti che, di fronte al progressivo aumento dei carichi di lavoro e al contempo a una continua diminuzione del rapporto fiduciario con il cittadino, scelgono di passare al privato dove recuperano appieno il proprio ruolo professionale con le responsabilità, gli obiettivi e anche le soddisfazioni che esso comporta. Inoltre, c’è anche un ragionamento da fare su quello che è l’obiettivo delle nuove strutture, come ad esempio le case di comunità. Io le immagino più come hub all’interno dei quali avviene sia un confronto multidisciplinare tra diverse professioni sia la presa in carico di pazienti specifici che vengono gestiti contestualmente dall’infermiere, dal medico di base e dallo specialista, in un momento di attività d’equipe. A questi hub devono associarsi case di comunità spoke che garantiscono un livello assistenziale caratterizzato da maggiore intensità. È chiaro però che gli spoke vanno pensati per essere attrattivi, creando nel personale le motivazioni giuste per lavorarci. Su questo più volte noi abbiamo ribadito la possibilità di ragionare su compensi che prevedano sia una parte fissa – considerando gli orari e le spese che sosteniamo – sia una parte legata agli esiti di salute. Tornare a parlare di obiettivi di salute, piuttosto che di obiettivi di management e amministrazione di risorse, penso sia la strada. Questa programmazione, però, nel PNRR è assente: non si possono costruire strutture senza pensare a chi poi, in quelle strutture, ci lavorerà e senza sapere quali saranno gli obiettivi di questi professionisti.